La Russia ha sparigliato le carte della crisi siriana, proponendosi come anello di congiunzione e dialogo tra gli Stati Uniti e il regime di Bashar al-Assad. La proposta Kerry-Lavrov di mettere sotto controllo e smantellare l’arsenale chimico di Damasco è ritenuta pubblicamente una vittoria diplomatica di Vladimir Putin.
Una soluzione che ha avuto un doppio effetto: indebolire ulteriormente l’immagine di Barack Obama in politica estera e costringere gli Usa a “inseguire” Mosca come un gatto col topo, come testimonia la lettera ai cittadini americani inviata dal presidente russo al New York Times.
Cosa potrebbe nascondere l’improvvisa mano tesa del Cremlino in un momento di relazioni così complesse con Washington?
UN’ATTESA LOGORANTE
Sono in molti a ritenere che la risoluzione russa serva solo a mantenere lo status quo, consentendo ad Assad di rimanere al potere e – come rileva Max Boot, Senior fellow del Council on Foreign Relations – offrendogli nel frattempo la possibilità di nascondere in luoghi sicuri una parte delle armi chimiche in suo possesso.
Per il momento tra Russia e Stati Uniti è in corso una “partita a scacchi“, che secondo la società di intelligence G-Risk, pone grandissimi pericoli perché i russi sono in vantaggio e gli americani in difficoltà. Putin sa bene che sulla partita siriana la Russia si gioca la propria credibilità internazionale e i futuri rapporti di forza con gli Stati Uniti. Un braccio di ferro che, in una sorta di riedizione della Guerra Fredda, oppone le rispettive amministrazioni sin dal 2004: con la rivoluzione arancione dell’Ucraina, poi con il Kosovo, con la Georgia e ora con la Siria.
LE RAGIONI DI MOSCA
Gli analisti sono concordi nel definire quella russa una sorta di “strategia della sopravvivenza“, orientata da un lato a riguadagnare un ruolo da protagonista sulla scena internazionale, un terreno che, spiega il vicepresidente di Atlantic Council, Barry Pavel, “gli è particolarmente congeniale vista la sua “prima vita” nel KGB”. Dall’altro serve a impedire che gli Usa possano alterare a proprio favore gli equilibri di una pedina fondamentale di Mosca in Medio Oriente.
Come sottolineato dal fondatore di Stratfor, George Friedman, quello di Putin somiglia molto a un “bluff“. Cerca di scaricare su Obama i propri “problemi interni“, fingendo di essere una “potenza mondiale“, quando è poco meno di una “forza regionale“.
PRECEDENTI PERICOLOSI
Ma nonostante la vittoria di misura sul presidente americano possa già di per sé essere sufficiente a Putin, come sottolinea l’arabo Al Monitor, Mosca potrebbe avere la tentazione di forzare, con esiti imprevedibili.
Questo timore, manifestato da diversi osservatori, trova conferma nei tanti episodi di cronaca raccontati in queste ore, come quello pubblicato dal Washington Post e ripreso sulle pagine del Corriere della Sera in un articolo a firma di Guido Olimpio.
I russi, in Siria, non hanno certo un buon precedente nella gestione delle armi chimiche. Nel 1992, l’allora presidente Boris Eltsin affidò al generale Anatoly Kuntsevic il compito di smantellare agenti batteriologici.
Il generale restò al suo posto due anni, poi venne sollevato dall’incarico “per aver compiuto gravi violazioni“. Solo più tardi si scoprirà che Kuntsevic, nel 1993, creò una società di copertura attraverso la quale vendette 800 chilogrammi di precursori chimici a Damasco. Materiale utile alla produzione di gas sarin.
COME USCIRE DALL’ANGOLO?
Ad indicare una via d’uscita al presidente americano è Shashank Joshi, Research Fellow del Royal United Services Institute, che in un commento pubblicato su Bloomberg view suggerisce di “affiancare i frequenti colloqui con il Cremlino alla definizione di un documento che costringa Assad a legare obiettivi – come la consegna delle armi chimiche e la firma della Convenzione per la non proliferazione – a tempi certi e definiti“. In caso contrario, ammonisce l’analista, la situazione “somiglierebbe drammaticamente a quella vissuta in Iraq nel 1990“. Con le conseguenze che il mondo conosce.