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Ilva e Riva, come evitare il disastro totale per l’acciaio italiano

La decisione del Gruppo Riva di procedere alla messa in libertà dei 1.500 addetti degli impianti facenti parte degli altri beni posti sottosequestro dal Gip di Taranto – in estensione rispetto al suo primo provvedimento assunto il 24 maggio scorso e ai sensi della legge 231 del 2001 sulla responsabilità amministrativa delle imprese – segna un’ulteriore escalation nelle complesse e tormentate vicende giudiziarie riguardanti lo stabilimento dell’Ilva di Taranto e il Gruppo Riva che lo possiede.

La Fim Cisl per bocca di Marco Bentivogli ha subito diffidato l’azienda dal porre in libertà i suoi dipendenti, chiedendo da un lato alla società di ricorrere agli ammortizzatori sociali e, dall’altro, sollecitando alla Magistratura il ricorso nei suoi atti di sequestro agli accorgimenti idonei a consentire la prosecuzione dell’attività produttiva che solo per il Siderurgico del capoluogo ionico è garantita da due atti legislativi, approvati dal Parlamento nella precedente e in questa legislatura, convertendo due decreti legge presentati nel dicembre 2012 e nel giugno di quest’anno dai Governi Monti e Letta, e subito controfirmati dal Presidente Napolitano.

Ora, sugli aspetti squisitamente giuridici della nuova fase apertasi nelle complesse vicende del Gruppo Riva a seguito delle decisioni della Magistratura, il Legislatore dovrebbe compiere una riflessione approfondita, dal momento che anche gli impianti ora sequestrati – insieme alla fabbrica di Taranto – appartengono al 1° Gruppo siderurgico italiano che, pertanto, potrebbe essere classificato esso stesso nella sua interezza di “interesse strategico” per l’economia del Paese, così come è stato già definito il suo megasito di Taranto nella legge 231 del 2012, e poi ribadito nella legge 89/2013. Se ciò avvenisse anche con l’ammissione di una facoltà d’uso, sarebbe allora l’intera impiantistica del Gruppo ad essere garantita nel suo esercizio produttivo con l’impiego delle maestranze che non sarebbero poste in libertà o in cassa integrazione, o almeno non lo sarebbero per cause di natura extraziendale.

Le vicende dell’Ilva di Taranto – ed ora quelle riguardanti gli altri stabilimenti in Italia del Gruppo – con l’esigenza naturalmente condivisibile di difendere la salute di cittadini e lavoratori, stanno riproponendo però ancora una volta, e sempre in forma drammatica, la necessità di tutelare il diritto al lavoro delle maestranze delle varie fabbriche di quel Gruppo. Al riguardo è opportuno ricordare – qualora lo si fosse dimenticato – quanto stabilito con assoluta chiarezza nella sentenza della Consulta del 9 aprile scorso sulla costituzionalità della legge 231 che ha voluto sottolineare come – citiamo testualmente – tutti i “diritti costituzionalmente tutelati (nel caso specifico quelli alla salute e al lavoro) vivano fra di loro in un rapporto di integrazione reciproca, che non consente pertanto di individuare uno di essi che abbia prevalenza assoluta sull’altro”. “La tutela” – hanno aggiunto i Giudici costituzionali – “deve essere sempre sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto fra loro. Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti che diverrebbe ‘tiranno’ (testuale nella sentenza) nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette che costituiscono nel loro insieme espressione della dignità della persona”.

La difesa della salute e quella del lavoro perciò sono strettamente connesse “in un rapporto di integrazione reciproca” e non si può separarle, privilegiando la prima a scapito della seconda o viceversa: e questo principio dovrebbe valere, per traslazione, anche per gli altri stabilimenti del Gruppo Riva e non solo per quanto statuito per l’impianto di Taranto. In altri termini, anche gli ulteriori provvedimenti che sono stati assunti – nei confronti di tutti i beni del Gruppo ai sensi della legge 231 del 2001 sulla responsabilità amministrativa delle imprese, e partendo da quanto successo per il sito dell’Ilva nel capoluogo ionico – andrebbero verificati nella loro effettiva praticabilità, in relazione a quanto stabilito nella sentenza della Consulta; e probabilmente, a questo punto, è la stessa legge 231 del ’91 che – almeno per gli impianti e i gruppi industriali classificati di ‘interesse strategico nazionale’- andrebbe rivista dal Legislatore in relazione alla sentenza della Corte Costituzionale sulla legge 231 del 2012, naturalmente da non confondersi nei suoi contenuti con quella del 2001.

Federico PirroUniversità di Bari



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