Problema di non facile soluzione quello della spending review, destinato pertanto a prendersi tra illusioni e disincanti. Realizzare tagli significativi alla spesa pubblica comporta una profonda riorganizzazione della pubblica amministrazione: restringerne il perimetro d’azione, aumentare la produttività di quel che rimane, dare spazio al mercato e ridurre all’osso le materie regolate dal diritto amministrativo.
L’esistenza di queste contraddizioni spiega il susseguirsi dei fallimenti. Né basterà la presenza di qualche autorevole economista a risolvere il problema. Che resta, per dirlo con un luogo comune, essenzialmente un problema politico. È pertanto richiede, come pre – condizione, una maggioranza solida e coesa, convinta che quello resta il problema di fondo della società italiana.
Maggioranze larghe e contraddittorie sono nell’impossibilità di operare a causa dei contrapposti interessi che esse esprimono. Lo si è visto con chiarezza quando il Governo Monti cercò di aumentare di qualche ora l’orario di lavoro dei professori. Cascarono le pareti della Commissione bilancio ed il testo originario del decreto legge fu opportunamente emendato.
Da un punto di vista astratto e concettuale il tema può essere affrontato facilmente. La spesa pubblica italiana non è maggiore di quella della media europea. La differenza sta solo nella sua qualità: grandi posizioni di rendita (soprattutto molto estese) infima qualità dei servizi resi (si pensi solo ai trasporti).
Se si parte dall’output, i servizi resi possono essere ottenuti con un notevole risparmio dei fattori produttivi usati. Il che significa procedere a massicci licenziamenti. Se si rovescia il ragionamento (stabilità dell’occupazione) allora bisogna migliorare adeguatamente la loro resa, al fine di rendere i servizi almeno alla pari con gli standard internazionali. Questo significa aumentare la produttività a partire dall’effettivo orario di lavoro.
Tertium non datur.