Un governo parlamentare del primo ministro, preminente nella determinazione dell’indirizzo politico, investito del potere di nominare e revocare i ministri, ottenere dal Capo dello Stato lo scioglimento anticipato delle Camere e richiedere al Parlamento il voto entro un termine preciso di provvedimenti importanti. Ma soggetto al rischio della sfiducia costruttiva. È la novità emersa dalla Relazione dei lavori del Comitato di costituzionalisti e scienziati della politica incaricati da Palazzo Chigi di studiare le linee guida per il percorso di riforme istituzionali e della legge elettorale.
Un regime intermedio fra parlamentarismo e semi-presidenzialismo
Riguardo alla forma di governo l’organismo era spaccato a metà. Da un lato i fautori della trasformazione semi-presidenziale di stampo francese, con elezione popolare del Presidente della Repubblica responsabile del governo e legittimazione del potere esecutivo e legislativo tramite regole maggioritarie uninominali a doppio turno. Dall’altro i supporter del regime parlamentare imperniato sulla sovranità dei gruppi partitici nel decidere la vita e l’orientamento di governi ancorati alla fiducia dell’assemblea, e sulla centralità di una figura super partes al Quirinale. Per rompere uno stallo che avrebbe indebolito l’opera della Commissione, i costituzionalisti Augusto Barbera, Stefano Ceccanti e Francesco Clementi, favorevoli all’opzione semi-presidenziale, hanno proposto una formula mirante al rafforzamento dell’esecutivo forte di una legittimazione popolare. Non formale come in Francia o negli Stati Uniti, bensì indiretta, grazie alla chiara indicazione del candidato premier da parte degli schieramenti e all’effetto di trascinamento del voto sul suo nome sull’alleanza che lo appoggia.
L’iniziativa, che ha conquistato l’adesione di gran parte del Comitato, si richiama al “modello Westminster”, il parlamentarismo forte di tipo britannico basato sul raccordo opinione pubblica-partito di maggioranza-capo del governo. Favorendo, con eccezioni significative, la formazione nelle urne di gabinetti monopartitici con leader riconoscibili in grado di governare con efficacia e incisività. In realtà il testo messo a punto nel “Comitato dei saggi” guarda all’esperienza del Regno Unito come a un orizzonte lontano, visto che nella definizione del rapporto fra Parlamento e governo e nell’elaborazione della legge elettorale si avvicina ai modelli tedesco e spagnolo.
L’impronta di Violante nella bozza tedesco-spagnola messa a punto dai Saggi
La prassi parlamentare d’Oltre Manica prevede il ricorso alle urne o in casi eccezionali la nomina di un altro primo ministro ad opera del partito di governo nell’eventualità di crisi politiche. E non conosce la sfiducia costruttiva, per cui il Parlamento a maggioranza assoluta può far cadere l’esecutivo in carica a condizione di votarne uno alternativo. Ma soprattutto si è consolidata nei secoli grazie al voto maggioritario di collegio a un turno che ha promosso una dinamica tendenzialmente bipartitica della vita pubblica. Meccanismo radicalmente escluso dai “Saggi”. Costruite sulla base del “doppio turno di coalizione” proposto da Luciano Violante e scritte dall’ex presidente della Camera dei deputati con il contributo del politologo Roberto D’Alimonte, le regole abbinate al “governo parlamentare del premier” prevedono un impianto proporzionale fondato sul voto di lista ai singoli partiti che possono allearsi per il governo, e su una robusta soglia di sbarramento al 5 per cento. Se nessuna coalizione ottiene il 40 o il 50 per cento dei seggi, si procede a un ballottaggio fra i due schieramenti più votati mettendo in palio la conquista del premio di maggioranza che permette di giungere al 55 per cento dei parlamentari.
Un “Porcellum a due turni” che punta a rafforzare una realtà partitica sfarinata ancorandola alla garanzia per legge della governabilità. L’esclusione di regole elettorali più coerenti con il “modello Westminster” risiede nella convinzione radicata nel mondo accademico e politico che l’uninominale funzioni in presenza di un bipartitismo strutturato, di cui è effetto e non causa. E che nell’attuale competizione tripolare italiana non assicura il raggiungimento di una maggioranza assoluta di seggi da parte delle forze in campo. Punto controverso è invece come riconoscere ai cittadini la facoltà di scegliere i rappresentanti. Tramontata l’adozione integrale del collegio maggioritario, le strade rimaste sono due: la reintroduzione delle preferenze come nella prima stagione repubblicana, o la previsione come in Germania di una legge con metà eletti in circoscrizioni ridotte con liste bloccate più corte e metà scelti in collegi uninominali a turno unico.