All’indomani dell’acquisizione di Telecom annunciata da parte della spagnola Telefonica, l’Unione Europea ha rilanciato l’allarme desertificazione industriale per il nostro Paese. Un cammino che appare irreversibile ma che potrebbe essere fronteggiato rileggendo i due volumi dal titolo “I protagonisti dell’intervento pubblico in Italia”. Forma di organizzazione produttiva che abbraccia le prime municipalizzazioni comunali e le cooperative cattoliche e socialiste, la creazione dell’IRI con il salvataggio del sistema bancario e le partecipazioni statali con l’avventura dell’Eni nell’ultimo dopoguerra.
Palestra di un’intera classe dirigente che seppe promuovere un ritmo attualmente impensabile di crescita. Personalità del calibro di Ernesto Nathan e Francesco Saverio Nitti, di Alberto Beneduce e Donato Menichella, di Sergio Paronetto e Pasquale Saraceno. Per riscoprire tale generazione il Centro italiano di ricerche e informazione sull’economia pubblica, sociale e cooperativa ha promosso ieri un convegno alla Camera dei deputati. Tanto più importante perché, ricorda lo storico Piero Craveri, “esauritasi quella stagione è iniziato il declino delle nostre eccellenze industriali – atomo, elettronica, biotecnologie – e nessuno ha più posto in termini strategici le priorità produttive dell’Italia”.
Pierluigi Ciocca apre la riflessione sulla necessità di una nuova IRI
A mettere in risalto l’attualità degli ideatori dell’intervento pubblico nell’economia è Pierluigi Ciocca, vicedirettore di Bankitalia tra il 1995 e il 2006. Per lo studioso fu giusta e lungimirante la loro intuizione, che portò alla costituzione nel 1933 dell’IRI, “motore del miracolo economico italiano e del suo tasso di sviluppo fino agli anni Ottanta. A riprova che non sempre il privato si rivela migliore e più efficiente del pubblico”. La ragione dei limiti di tale esperienza, spiega lo studioso, risiede nel fatto che i suoi artefici e manager vennero sopraffatti nel tempo dagli appetiti e dalle ingerenze del ceto politico, più in epoca repubblicana che nel regime fascista. “Ma lo Stato fu costretto a puntare direttamente sull’impresa pubblica e sulla sua gestione per supplire alla latitanza dei gruppi capitalisti privati: elemento già riscontrato nel 1935, quando l’IRI detentore dell’11 per cento del Pil propose invano ai gruppi privati di ricomprare le aziende acquistate due anni prima per far fronte alla loro crisi di liquidità”.
È la stessa mentalità, rimarca l’economista, che avrebbe spinto in seguito gli stessi capitalisti ad affidarsi alla “badante” Mediobanca, creata da un altro banchiere pubblico come Enrico Cuccia. Tutto ciò mentre l’impresa pubblica “veniva piegata e snaturata per fini partitici, fino a essere privatizzata nello sciagurato 1992 solo per far cassa”. Il risultato è eloquente: “Nei 4,4 milioni di micro-imprese presenti nel paese, appena 400 superano i 250 lavoratori. E le poche grandi aziende attive producono macchine utilitarie, pneumatici per le auto, magliette colorate e servizi autostradali, pastasciutta, lunette per occhiali. Mentre la siderugia si sta dissolvendo”. È qui che Ciocca lancia l’interrogativo più importante: “È necessaria una nuova IRI per far rinascere l’industria manifatturiera nel nostro paese?”
Marcello De Cecco è scettico sulla prospettiva di un ritorno all’IRI
Un interrogativo a cui Marcello De Cecco, professore di Storia della finanza e della moneta alla Scuola Normale e fra i più acuti studiosi del funzionamento dei mercati, dà una risposta permeata di disincanto. Ricorda che il modello produttivo incarnato dall’IRI fu favorito dalla chiusura dei confini dell’economia e dal clima autarchico-patriottico prevalente negli anni Trenta: “Atmosfera alla quale neanche Luigi Einaudi restò indifferente, consapevole com’era dei limiti enormi del capitalismo italiano”. A giudizio dell’economista l’impossibilità di ripercorrere “un’esperienza la cui nascita promosse l’avvio dello sviluppo dell’imprenditoria privata” si può leggere negli anni Novanta: “Le partecipazioni statali vennero archiviate non per risanare i conti pubblici e neanche per riconoscere la vittoria del liberismo, bensì per appagare la fame di denaro e risorse delle merchant bank straniere. E in quella fase, frutto di una classe politica di analfabeti, un’intero ceto di manager fu sostituito, rimosso per sempre”.
Giorgio La Malfa punta il dito contro le degenerazioni partitocratiche dell’intervento pubblico
Anche l’ex leader del Partito repubblicano Giorgio La Malfa rivendica il valore del modello italiano di impresa pubblica, “forma di organizzazione unica nel mondo occidentale e tema di ricerche internazionali negli anni Cinquanta e Sessanta”. Perché l’intervento diretto dello Stato nel mercato aveva portato alla creazione di “aziende centauri” sane e produttive, fonti di eccellenza nel mondo e di diffusione del capitalismo manageriale nordamericano nel nostro paese. Fra tutte spiccava l’IRI, una nebulosa agli occhi degli statunitensi, nata per iniziativa della Banca d’Italia che decise di ridurre i debiti enormi dovuti dalle imprese alle centinaia di banche che avevano prestato loro denaro prima della crisi del 1929. Finché Beneduce, socialista non iscritto al Pnf e Menichella, forse contrario al fascismo, ebbero l’idea di trasformare quei prestiti in titoli di rami industriali da conferire a un ente provvisorio. Ma poiché i gruppi privati non avevano la liquidità necessaria, l’istituto venne stabilizzato. Risanando aziende e istituti creditizi finiti nella sua orbita. Ruolo che avrebbe mantenuto, con Mediobanca, nell’Italia repubblicana del “capitalismo privo di capitali”.
Le radici del declino dell’IRI, spiega La Malfa, risalgono all’avvento di Amintore Fanfani alla guida della Democrazia cristiana nel 1954. Fu allora che la politica iniziò a guardare alle imprese pubbliche come a una fonte di risorse, consenso e potere da gestire e spartirsi. Contraddicendo le convinzioni di cattolici attivi nell’IRI come Paronetto e Saraceno, che ritenevano l’istituto una felice sintesi di “economia mista” in grado di correggere le disfunzioni e gli arbitri del mercato. È per questa ragione che l’ex ministro dell’industria ha perduto ogni illusione: “Oggi le condizioni per ricostruire l’IRI di Beneduce e Menichella non vi sono”.