Tra i miei ricordi del liceo conservo la traduzione dal greco di un capitolo delle ‘’Storie’’ di Erodoto, che da ragazzo mi colpì e che ho avuto più volte modo di utilizzare nei miei discorsi, quando si presentava l’occasione di avvalersi dell’arma di una retorica con pretese di cultura. Erodoto, l’inventore della storia, racconta che Solone, il saggio per antonomasia, durante un giro attraverso il mondo allora conosciuto, capitò in Lidia e li fu ricevuto con tutti gli onori dovuti alla sua fama dal re Creso, la cui ricchezza era tanto sconfinata da divenire leggendaria ed attraversare i secoli.
Il sovrano non esitò a mostrare all’ospite tutti i suoi averi: i tesori più preziosi sulla terra, un esercito di schiave e schiavi la cui leggiadria oscurava quella della luna piena, distese a perdita d’occhio di campi coltivati con mandrie, greggi e armenti al pascolo, palazzi costruiti dai migliori architetti ed una reggia piena di oro ed argento e di marmi venuti da lontano, coperti da drappi tra i più raffinati, tessuti in onore del re da una moltitudine di tessitori tra i più capaci del regno e degli Stati confinanti.
Solone osservò tutte quelle meraviglie con interesse ma rimase in ostentato silenzio. Creso pensò, allora, che fosse venuto il momento di stanarlo, chiedendogli chi fosse, a suo avviso e sulla base della sua esperienza, l’uomo più ricco e felice del mondo. Solone, senza turbarsi, rifilò ad un Creso sempre più stupito, in rapida successione, due o tre nomi di illustri sconosciuti, suoi concittadini ateniesi, che avevano condotto una vita normale, servito la patria in armi, generato dei figli, i quali a loro volta avevano dato loro dei nipoti prima che la morte li gremisse nella serenità della famiglia e delle amicizie.
A quel punto Creso, spazientito, sbottò: “Ma come? Io ti conduco a spasso tra i miei tesori e tu non mi inserisci neppure ai primi posti tra le persone più felici al mondo, ma mi fai precedere da tre o quattro signori Nessuno che solo tu conosci?”. Al che Solone, che non era saggio solo a chiacchiere, guardò negli occhi il sovrano e gli rispose: “Per giudicare la vita di una persona occorre aspettare la fine dei suoi giorni”. Non a caso, scrive sempre Erodoto di Turi, anni dopo Ciro invase la Lidia e condannò a morte Creso, il quale potè salvarsi soltanto narrando al vincitore le parole premonitrici di Solone.
Ma è ora di andare avanti e parlare, appunto, dell’ultima beffa di Silvio Berlusconi. I fatti sono noti. Il Cavaliere, dopo aver predisposto la messa in scena delle dimissioni “spontanee” di tutti i parlamentari del Pdl-Forza Italia, ha intravisto una scorciatoia per mandare a gambe all’aria il governo Letta, accusandolo di non aver adottato il provvedimento di rinvio dell’aumento dell’IVA.
Così ha ordinato ai ministri di dimettersi. L’iniziativa del Cavaliere è sicuramente spregiudicata, cinica, ma non è stupida, anche perché gli dà modo, diversamente dalla pagliacciata delle dimissioni in massa, di sbandierare una argomentazione di carattere economico – le tasse – a giustificazione di un atto determinato soltanto dal suo disperato interesse personale.
Ma avremo occasione di riparlarne. Qualcuno forse si chiederà che cosa c’entrano Creso e Solone con quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi. È presto detto. Silvio Berlusconi ha dominato per vent’anni la scena politica italiana, amato da metà del Paese, odiato dall’altro metà. Per i primi era colui che, scendendo in campo, aveva sconfitto la “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto, pronta a raccogliere quel potere che le Procure gli stavano immeritatamente consegnando.
Il Cavaliere, per costoro, era il perseguitato da parte di una giustizia fellona che abusava dei suoi delicati poteri per distruggere un leader fuori dal coro dell’establishment. Per l’altra parte del Paese Berlusconi era un avventuriero attento soltanto ai propri interessi, un corruttore dei sani principi repubblicani (sono mai esistiti veramente ?); pertanto, un nemico pubblico n.1 da ridurre all’impotenza con ogni mezzo, vista l’impossibilità di farlo depositando la scheda nell’urna. Ebbene, personalità di grandi contraddizioni, il Cavaliere è stato ed è insieme il ritratto che ne fanno gli amici e la caricatura degli avversari; o viceversa.
In questi casi, in attesa del giudizio del tribunale della Storia, sono gli ultimi atti delle sua carriera politica ad illuminare di sé i venti anni della sua presenza in campo. Perché, per quanto grande sia la sua volontà di resistere e di combattere fino all’ultimo, Berlusconi è un uomo finito, che può solo aspettarsi una sequela di condanne che gli impediranno per sempre di esercitare la sua leadership.
Perché, se anche dovesse miracolosamente evitare il carcere e l’interdizione, non riuscirà mai più a farsi accettare in un consesso internazionale appena appena un po’ più serio dello Stato libero di Bananas. Purtroppo, il modo con cui ha deciso di chiudere la sua vita politica (rifiutandosi di accettare la sconfitta) fa pendere la bilancia a favore dell’opinione dei suoi nemici.
Nessun statista si sarebbe comportato come lui. Solone direbbe che il Cavaliere è finito da avventuriero, una genia di cui la politica deve liberarsi.