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Italia e Usa, il futuro oltre la “special relationship”. Parla Pavel

Russia

Le turbolenze politiche ed economiche non rompono la “special relationship” tra Italia e Stati Uniti. Ad unire le due sponde dell’Atlantico, sempre più “stretto” negli ultimi anni, sono le visioni comuni su temi come sicurezza, terrorismo, energia, climate change. La Nato e l’Unione Europea sono le cornici dentro le quali il nostro Paese ha l’opportunità di far valere le sue scelte politiche e la sua posizione geografica, sempre più determinante per fronteggiare le minacce del futuro.
Parola di Barry Pavel (nella foto), vice presidente e direttore del Centro per la Sicurezza Internazionale “Brent Scowcroft” di Atlantic Council, intervistato da Formiche.net a margine dell’incontro “Stati Uniti e Italia, dall’Atlantico al Mediterraneo”, seminario a porte chiuse organizzato da Formiche in collaborazione con l’ambasciata Usa in Italia.

Mr. Pavel, che sfide possono affrontare insieme Usa e Italia nel 2013, considerato il nuovo scenario internazionale?
Senza dubbio molto è cambiato dalla caduta del Muro di Berlino, ma il ruolo del vostro Paese rimane centrale. Ad essere mutate sono le minacce che la Nato e quindi anche Italia e Usa devono affrontare. Io credo che la Penisola possa essere oggi per l’Alleanza Atlantica quello che il Fulda Gap fu durante la Guerra Fredda. Il Nord Africa e il Medio Oriente sono aree molto instabili, dalle quali provengono molte problematiche che la Comunità Transatlantica sta affrontando: terrorismo, armi di distruzione di massa, flussi di rifugiati, crisi energetiche, questioni di sicurezza. Temi sui quali la concentrazione della Nato sta aumentando, anche in considerazione del fatto che dal 2014 gli Usa ritireranno le loro truppe dall’Afghanistan.
In questo senso, l’Italia è un alleato straordinario per collocazione geografica, conoscenze culturali, capacità di difesa dimostrate nel suo ruolo guida in Libia. Dal mio punto di vista l’Italia è molto più importante ora per gli Stati Uniti e per la Nato di quanto non lo fosse cinque o dieci anni fa.

Molti osservatori commentano però che la rivoluzione di shale gas e shale oil stia allontanando gli Usa dall’Europa mediterranea. Che ne pensa?
Credo non sia corretto. Il fracking è rivoluzionario e importante per gli Usa e può costituire un forte potere di mediazione, ma non vuol dire che Washington e la Nato possano disinteressarsi di ciò che accade in Medio Oriente, perché viviamo in un mercato globale dell’energia, di cui le riserve americane rappresentano solo una minima parte. Ma non solo. Il petrolio non è l’unico motivo per cui gli Stati Uniti impegnano le proprie forze nella regione, non lo è mai stato. Come ha ricordato il presidente Barack Obama nel suo discorso alle Nazioni Unite, ci sono molte ragioni per cui l’America continuerà a guardare con interesse ciò che accade in MO e hanno a che fare con la nostra sicurezza e quella dei nostri partner internazionali.

Come lei ha ricordato, l’Italia e gli Usa sono legati da un rapporto speciale, che negli anni non è mai venuto meno. Una “special relationship” che tuttavia alcuni dossier come Muos, F-35 o la vicenda del sequestro Abu Omar – sommati all’instabilità politica del nostro Paese – hanno rischiato un po’ di incrinare, almeno agli occhi di alcune porzioni dell’opinione pubblica. Come è vista oggi l’Italia oltreoceano?
Ritengo che le relazioni tra Usa e Italia siano estremamente forti, più che con qualsiasi Stato europeo, almeno in questo momento. È una collaborazione che va oltre l’aspetto puramente pragmatico. Tra noi c’è una condivisione di valori e obiettivi. Lo testimonia bene la sintonia tra il presidente della Repubblica Napolitano e il presidente Obama. Quest’ultimo comprende i problemi italiani. Anche gli Usa vivono un profondo dibattito su scelte di natura politica e militare. Le risorse sono sempre meno e bisogna scegliere dove indirizzarle.

Questo ci porta a un’ulteriore riflessione. Quanto sta a cuore agli Usa un’Europa forte anche politicamente, che le consenta di scrollarsi dalla spalle tutta la responsabilità di ciò che accade nel mondo? E quale può essere il ruolo del nostro Paese nella definizione di questo scenario?
Tra Usa e Unione c’è una collaborazione crescente, perché – come sottolineato dal presidente Obama – l’Europa è considerata un “catalizzatore di azione globale” su temi come Afghanistan, Libia, disordini in Medio Oriente, cambiamento climatico, il ruolo della Cina. Rafforzare la cooperazione economica, commerciale e politica tra le due sponde dell’Atlantico può rafforzare reciprocamente la nostra forza. Alcuni europei non hanno compreso che anche l’Asia rappresenta in questo momento un forte fattore di instabilità nell’economia e nella sicurezza globale che possiamo fronteggiare solo se governiamo assieme questo enorme processo di cambiamento.

Il suo allarme sembra trovare conferma nelle cronache. Gli Stati Uniti hanno accusato la Cina di aver sottratto dati informatici che hanno poi consentito a Pechino di acquisire la tecnologia necessaria a costruire droni. Eppure negli Usa si fatica a spiegare all’opinione pubblica la reale portata della sfida della cybersecurity. Molti politici e giornalisti derubricano il ruolo dell’Nsa a quello di un Grande Fratello, senza sottolineare l’altra faccia della medaglia, quella della sicurezza e della difesa dell’interesse nazionale. Anche in Italia è in corso un dibattito di questo tipo. Lei cosa ne pensa?
Il rapporto tra privacy e sicurezza rappresenta uno dei temi cruciali per le leadership occidentali nei prossimi anni. È evidente che non si può sottovalutare la portata di questo problema. Bisognerà far comprendere ai cittadini che l’anonimato in rete non è sinonimo di libertà e che anzi, può rivelarsi molto pericoloso. Servono regole a tutela della nostra sicurezza, delle nostre tecnologie. E anche un adeguato sistema di difesa che ci metta al riparo da queste minacce. Anche in questo campo Usa ed Europa, Italia compresa, possono efficacemente collaborare.



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