Alla vigilia del voto di fiducia al governo guidato da Enrico Letta, Federmanager, l’organizzazione che aggrega e rappresenta migliaia di dirigenti di aziende private e pubbliche, aveva rivolto un appello pubblico ai parlamentari. Nell’appello richiamava tutti al dovere di “evitare una crisi dai risvolti devastanti” e di rilanciare un “progetto Paese imperniato su uno Stato più leggero che fa poche cose ma le fa bene”. Adesso che il primo obiettivo del documento appare realizzato, Formiche.net ha chiesto al presidente di Federmanager, Giorgio Ambrogioni, di valutare i dossier di politica economica su cui Palazzo Chigi dovrà misurarsi.
Siete soddisfatti dell’intervento di Enrico Letta sulle linee guida dell’azione di governo?
Nella mia lettera trasmessa ieri mattina al premier ho espresso apprezzamento per il risultato raggiunto in Parlamento. Soprattutto per due passaggi nevralgici. Il primo è il suo riferimento a cultura e educazione come pilastri fondamentali da cui ripartire. Fattori come la storia, la cultura, l’ambiente – oltre la metà del patrimonio storico-artistico del pianeta – vitali per le potenzialità di crescita del nostro Paese. L’altro aspetto rilevante riguarda un nuovo modello di politica industriale in cui le poche grandi imprese nazionali recuperano un ruolo globale tramite alleanze lungimiranti.
Grazie a un programma di privatizzazioni?
Sì, ma intelligenti e non dispersive come avvenuto per le pessime cessioni degli anni Novanta, ispirate alla logica del fare cassa. Condivido poi l’accento sul documento “Destinazione Italia”, in cui il premier richiama l’urgenza di rimuovere i fattori che scoraggiano il fare impresa e gli investimenti produttivi esteri in Italia. Comparto nel quale siamo pronti ad agire per favorire lo sviluppo manageriale del nostro capitalismo troppo familiare.
A proposito dei limiti del capitalismo, ritiene quella di Telecom la svendita di un “gioiello di famiglia”?
L’azienda delle telecomunicazioni, che era un asset cruciale e globalizzato se pensiamo alla sua penetrazione in America Latina, è stata fortemente indebitata e resa incapace di investire su se stessa. Ragion per cui assistiamo alla sua scomparsa dal panorama industriale italiano. Non siamo turbati dall’acquisizione compiuta dalla spagnola Telefonica ma dalla mancanza di un disegno strategico e di reciprocità. Riflesso di un lungo processo di impoverimento produttivo. Con le eccezioni di Ferrero e Barilla, siamo usciti dall’agroalimentare, dalla moda, dalla chimica.
Nutrite fiducia nella volontà del governo di estendere i poteri stile golden power alla rete fissa di Telecom?
Va benissimo per salvaguardarne il carattere strategico. Ricordo che chiedemmo e ottenemmo dal governo un identico provvedimento per i comparti difesa di Finmeccanica. Tuttavia si tratta di azioni postume e difensive. È molto meglio prevenire e progettare una visione industriale del ruolo delle nostre imprese. Valorizzando e capitalizzando le capacità manageriali e creative che possiamo vantare.
È necessario puntare sull’assorbimento di Alitalia in Air France-KLM?
Al tempo dell’esecutivo guidato da Romano Prodi ci pronunciammo a favore dell’integrazione della compagnia di bandiera con il gruppo franco-olandese. Ponendo precisi paletti: pari dignità con garanzia del ruolo strategico di Alitalia sulle nuove rotte internazionali e intercontinentali, e valorizzazione del grande hub di Fiumicino per le direttrici Sud del pianeta. Prevalse una visione speculativa, che ha portato alla crisi attuale. A questo punto ben venga un intervento transitorio dello Stato che impedisca di svendere l’azienda aerea riducendola a un canale di trasferimento dei viaggiatori verso Parigi. E permetta di rilanciarla in una cornice di alleanze e sinergie in grado di intercettare i grandi flussi turistici provenienti dai paesi emergenti dell’Oriente: Cina, India, Russia.
Con la vendita di Ansaldo Energia da parte di Finmeccanica l’Italia non rischia di perdere un altro asset strategico?
Finmeccanica ha voluto concentrare risorse e investimenti nel suo core business: tecnologia di difesa e aeronautica. Ansaldo Energia attualmente è un’azienda di ridotte dimensioni. Se con un passaggio attraverso il Fondo strategico di Cassa depositi e prestiti la si volesse vendere a giapponesi o coreani, l’importante è che chi la compra ne faccia il polo europeo dell’energia. Quando diversi anni fa Eni decise di cedere il Nuovo Pignone, provocò un mare di critiche. Oggi bisogna riconoscere che chi l’ha acquistato, General Electric, ne ha fatto un player di rilievo globale.
Voi siete ostili a “privatizzazioni compiute fuori dalla logica industriale”. Come giudica il programma, allo studio del governo, di cessione delle partecipazioni dello Stato nei cosiddetti campioni nazionali?
Vogliamo essere prudenti e capire come l’esecutivo intende realizzarle. Prima di vendere e privatizzare settori delicatissimi e nevralgici si possono mettere sul mercato il gigantesco universo di municipalizzate locali, spesso fonte di clientelismo e corruzione – fenomeno valutato in 60 miliardi di euro – o il grande patrimonio immobiliare pubblico.
Per ridurre le tasse su lavoro e impresa e attrarre gli investimenti produttivi proponete tagli mirati alla spesa pubblica improduttiva. In quali comparti?
Nella sanità e nella pubblica amministrazione. Grazie all’applicazione dei costi standard e all’adozione di una cultura manageriale in tali settori si possono eliminare sprechi e opacità e reperire enormi risorse. Ma requisito preliminare è una revisione radicale del Titolo V della Costituzione, che accavalla le competenze, aumenta le autorizzazioni per un’opera pubblica, alimenta illegalità e corruzione.
Il governo saprà recepire questo ambizioso progetto riformatore?
L’esecutivo di Enrico Letta è appena uscito da un passaggio difficile e adesso ha acquisito la forza necessaria per compiere atti concreti in una direzione precisa. Che verrà giudicata dagli elettori. Nel premier e in ministri come Enrico Giovannini e Flavio Zanonato ho visto la volontà di muoversi con nettezza. Il tempo del galleggiamento è finito.