Nelle pieghe dell’enorme debito pubblico italiano è nascosto un pericolo insidioso e finora poco considerato: il fardello degli enti pubblici, che attraverso le società municipalizzate hanno accumulato un altissimo numero di perdite non considerate nei bilanci degli enti.
Le prime, serie avvisaglie di questo allarme sono testimoniate da una recentissima sentenza della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, che ha stabilito come lo Stato italiano debba garantire i pagamenti dei debiti a carico dei Comuni in dissesto, che a causa delle loro difficoltà finanziarie non riescono a liquidare quanto dovuto, ma anche dalla continua richiesta di sostegno di Palazzo Chigi da parte dei grandi comuni, Roma, Milano e Napoli in testa.
Una bolla destinata prima o poi a scoppiare, come spiega in una conversazione con Formiche.net Bernardo Bortolotti, professore associato di Economia presso l’Università di Torino, direttore del Sovereign Investment Lab presso il Centro Paolo Baffi sulle Banche Centrali e sulla Regolamentazione Finanziaria, Università Bocconi e co-autore del libro “Comuni S.p.A. – Il capitalismo municipale in Italia”, edito dal Mulino.
Professore, come considera l’indebitamento degli enti locali italiani?
È senza dubbio uno dei più seri problemi del nostro Paese. Una vera e propria bomba ad orologeria che va disinnescata quanto prima. Un’emergenza assoluta che parte dai comuni e dalle regioni.
Come mai?
Una grossa responsabilità è da attribuire al famoso capitalismo municipale – la proprietà di aziende da parte di enti locali, soprattutto comuni – che è stato troppo spesso il meccanismo con cui le amministrazioni locali hanno occultato squilibri di bilancio. La trasformazione di uffici e funzioni in “aziende” e società per azioni ha consentito di non contabilizzare le loro perdite nel bilancio comunale, e quindi nel “famigerato” Patto di stabilità interno. Una legge del 2008 imponeva questo consolidamento ma non mi risulta ancora applicata nella redazione dei bilanci 2013. Sullo sfondo quindi c’è già una situazione di dissesto di molti comuni. E a un equilibrio così precario noi dobbiamo aggiungere questo carico di debito nascosto, surrettiziamente fuori bilancio.
Perché la legge di cui parla non è ancora applicata?
Credo a causa di una sentenza della Corte di Cassazione che l’ha giudicata incostituzionale perché di competenza legislativa concorrente, e quindi non statale. Il che, malgrado l’inoppugnabile correttezza giuridica, mi sembra senza senso da punto di vista economico, viste le ricadute di questi debiti locali sulla sostenibiltà del bilancio dello Stato.
È reale il rischio di un default?
Non mi piacciono i gufi e le Cassandre. Prima di paventare un fallimento diamo una chance a Carlo Cottarelli, il nuovo commissario per la spending review. Ci aspettiamo sangue sudore e lacrime, e mi auguro che trovi il modo di incidere a livello locale non solo “tagliando”, ma recuperando informazione a livello di bilancio, leggendo tra le pieghe. Ci sono, mi passi il gioco di parole, aziende inutili e aziende in utile. E quelle inutili non sono poche, perché in passato e purtroppo tutt’ora molte municipalizzate non sono aziende sane. E bisognerà porvi rimedio prima che si materializzino quegli ulteriori debiti che ci porterebbero davvero un passo verso il default, ovvero un ulteriore downgrading del nostro debito pubblico.
Di chi è la colpa di questa situazione?
Non voglio attribuire colpe dirette, ammesso che ce ne siano, ma qualcuno dovrà prima o poi spiegare alla politica cosa significa gestire i servizi pubblici locali con criteri di efficienza e di economicità.
Qualche esempio?
Il referendum sull’acqua è emblematico e paradossale. Strumentalizzando il tema dell’acqua come bene pubblico puro, abbiamo bloccato qualunque tentativo di riforma dei servizi idrici in un Paese in cui c’è forse il più largo consumo al mondo di acqua minerale. Con il risultato che abbiamo un servizio idrico costoso e inefficiente, in alcune aree paragonabile a quello di paesi in via di sviluppo. E ora a causa dell’incertezza delle regole non riusciamo a far affluire investimenti negli acquedotti, ormai ridotti a un colabrodo…
Cosa è accaduto in questi anni?
Da una prospettiva più ampia, quello che notiamo negli ultimi vent’anni è che c’è stato un arretramento della proprietà statale con operazioni anche di successo. Non c’è stata solo Telecom. Ma mentre lo Stato centrale vendeva e dismetteva, gli enti locali acquistavano. È stato un gioco a somma zero che non ha portato benefici, anzi, ha moltiplicato le inefficienze, perché gli enti locali non sono più efficienti dello stato. Nel frattempo abbiamo inserito la riforma del Titolo V, attribuendo competenze ma scarsi vincoli di bilancio. Per mettere ordine bisogna partire dalla considerazione che questo federalismo è tutto da rifare.
Quali soluzioni immagina?
C’è bisogno di un’azione su più livelli. In primo luogo bisogno evitare l’eccessiva frammentazione e favorire l’aggregazione fra le aziende. Bisogna iniziare un percorso in cui si possano valorizzare quelle che vanno meglio, come le utilities dell’energia, ma che necessitano di essere riorganizzate e messe sul mercato, perché appetibili. Lavorano in comparti regolati e con redditività certa. E poi bisogna rilanciare gli investimenti con business model solidi, ancorati su forti economie di scala. Dall’altro lato, invece, ci sono alcune attività che non riescono a stare in piedi.
Come risanarle?
Le strade sono due: o si liquidano oppure, se considerate di fondamentale interesse pubblico, si fanno finanziare in economia dai comuni. Ma in modo trasparente, senza trucchi contabili. E infine ritengo si debba essere anche un po’ creativi, uscendo da questa contrapposizione cosi netta fra stato/mercato. Un esempio interessante senz’altro è l’esperienza della “big society” intrapresa da Tony Blair e proseguita David Cameron, nel Regno Unito. Una sorta di collaborazione tra la società civile e il settore privato. Il pubblico liberalizza, sapendo che alcuni servizi saranno in parte gestiti e anche monitorati dalle comunità che agiscono con logiche di sostenibilità ma non necessariamente di mercato. Con risultati a volte eccellenti.
Che cosa consiglia al governo?
Creare subito una task force sul debito, che vagli le tante proposte e formuli raccomandazioni per abbattere subito e in maniera strutturale questa spada di Damocle che pende sulla nostra testa e su quella delle generazioni future. E abbattere la spesa. Il ministro Fabrizio Saccomanni (nella foto) ha individuato 204 miliardi di euro aggredibili. Non sono pochi. Cominciamo da questi, con un mix interventi mirati a livello locale e centrale.