La legge di stabilità? Manca di una direzione di marcia. Sarebbe stato utile intervenire, almeno in prospettiva, tagliando la spesa pubblica, specie quella locale che incide per il 60% sugli equilibri complessivi. Commenta così l’ex sottosegretario all’Economia nel governo Monti Gianfranco Polillo la “legge di stabilità” presentata due giorni fa dall’esecutivo delle larghe intese.
Polillo mette l’accento sul fatto che esiste un assioma secondo cui la spesa pubblica centrale è cattiva e quella locale no. Per smontare questa falsa premessa si potrebbe proporre,”come elemento propedeutico alla spending review, che dovrebbe fare Cottarelli, una due diligence per dimostrare che in che modo le risorse pubbliche, specie a livello locale, sono utilizzate”.
In cosa è maggiormente deficitaria la legge di stabilità?
Innanzitutto non si dovevano avere attese miracolistiche sul 2014, perché non ci sono i tempi. Si doveva invece individuare una traiettoria di marcia, una sorta di programma a medio termine, da realizzare progressivamente. Il premier, presentando la legge, l’aveva annunciato. Ma poi, analizzando le cifre del triennio in questione, non vedo un disegno, bensì una serie di piccoli interventi al margine.
Dove recuperare le risorse?
Il dramma italiano è il buco nero dei conti pubblici che prende il nome di finanza locale. È una sorta di bancomat, utilizzato dagli amministratori locali nei confronti dello Stato centrale, che non richiede rendicontazione. Il governo Monti in verità aveva provato a mettere qualche paletto, a seguito del caso Fiorito, ma la Corte Costituzionale ha cassato tutte norme che prevedevano una qualche forma di controllo.
Per cui si aspettava una maggiore riduzione della spesa pubblica?
Il ministro Saccomanni in audizione ha detto che la spesa corrente dello Stato, al netto di quella per interessi – previdenza e dei trasferimenti nei vari livelli, è gestita per il 60% a livello locale.
Perché non si riesce a controllarla?
Per ragioni di carattere strutturale, ma in primis a causa del disordine amministrativo che c’è nel Paese: i vari livelli governativi che si sovrappongono e si contraddicono, le municipalizzate, le comunità montane, i bacini idrici e poi regioni, comuni, municipi, consorzi di varia natura e specie e via dicendo. Un magma insondabile. Due gli strumenti disponibili ai fini del controllo: il patto di stabilità interno e il Siope, un sistema informatizzato che consente di avere in tempo reale il flusso dei pagamenti. Ma che nulla possono dire sulla tipologia della spesa. Può riguardare l’indispensabile aiuto agli anziani o le feste della porchetta a spese del contribuente. Per non parlare del “socialismo municipale”. Sono più di ottomila le partecipazioni in società dei soli capoluoghi regionali e delle regioni.
Esiste un assioma secondo cui la spesa pubblica centrale è cattiva e quella locale no?
Certo. Ma per evitarlo si potrebbe proporre, come elemento propedeutico alla spending review che dovrebbe fare Cottarelli, una due diligence per dimostrare che quel 60% di risorse che gli enti locali utilizzano sia usato correttamente. A quel punto nulla vieterebbe, anche, di aumentare l’imposizione fiscale. Ma in assenza di tale dimostrazione non si può proseguire su quella strada. Tra l’altro le amministrazioni centrali sono molto più controllate, penso alla Corte dei Conti, al Parlamento, all’opinione pubblica. Ma nei Comuni e nelle Regioni chi provvede alla supervisione?
Si aspettava metodo e merito diverso nella Legge di stabilità che è stata approntata di fatto da uomini ex Bankitalia?
Rispondo con un esempio che riguarda la Germania: Angela Merkel ha vinto le elezioni venti giorni fa, in questo lasso di tempo ha prodotto solo contatti con le forze politiche per scegliere partner e definire un ipotetico programma di governo. Generalmente in Germania i governi di Grosse Koalition hanno una gestazione molto lunga, che però conduce a due risultati positivi: un confronto sulla reale situazione del Paese e la definizione di eventuali terapie. Ma ciò che conta è l’analisi generale della situazione economica e sociale, che deve essere condivisa. Dopo di che ci possono essere terapie di destra o di sinistra. Il programma finale è minuzioso. Centinaia di pagine, siglate una per una.
Indicativo su un modus agli antipodi di quello italiano…
Altro che il contratto fatto da Silvio Berlusconi negli studi di Bruno Vespa, lì c’è una precisione teutonica su un documento redatto quasi di fronte ad un notaio che vincola l’azione di governo. Il paragone dimostra che quello italiano non è affatto un governo di larghe intese, ma un esecutivo di emergenza nazionale nato su un esito elettorale difficile. Per cui la difficoltà nell’impostare la politica economica del governo deriva dal fatto che mancano i presupposti utili ad un positivo sviluppo. A partire da un’analisi condivisa della situazione e delle relative priorità.
Quindi si continua con partite di giro anziché con misure decisive?
Si propongono interventi minimi su un margine che non esiste più: da qui nascono tutte le difficoltà.
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