Skip to main content

Caro Renzi, il modello dei sindaci non è maggioritario

Matteo Renzi l’ha ribadito alla “Leopolda ‘13”: “Faremo passare la voglia di proporzionale presente nel Partito democratico. L’importante è sapere chi ha vinto nelle urne, che il vincitore abbia i numeri per governare, che per 5 anni sia l’unico responsabile dell’esecutivo senza bisogno di larghe intese”. Rivendicando tali obiettivi, il primo cittadino di Firenze è tornato a invocare una riforma elettorale modellata sul meccanismo in vigore nelle grandi città. Presentandolo come garanzia di sovranità popolare e baluardo di scelta fra alternative programmatiche. Tuttavia le regole evocate dall’aspirante leader del Pd sono pienamente proporzionali. È vero che con il ballottaggio tra i due schieramenti più forti riescono a promuovere una dinamica bipolare, ma sono lontane dal metodo maggioritario con cui vengono troppo superficialmente identificate.

La proposta Renzi tra voto nei grandi comuni e bozza Violante

La legge che nel marzo 1993 ha introdotto l’investitura diretta dei primi cittadini nelle città con più di 15mila abitanti riserva il voto maggioritario uninominale con ballottaggio soltanto ai candidati sindaco. Ma per la formazione dell’assemblea locale il meccanismo è un proporzionale di lista con 3 preferenze all’interno di ogni formazione. Gruppi che possono allearsi a supporto di un aspirante primo cittadino e che nell’eventualità di vittoria conquistano un premio di governabilità del 60 per cento dei seggi. Mentre il resto degli scranni viene ripartito tra le forze sconfitte in grado di superare uno sbarramento del 3 per cento. È improntato a tale modello il progetto a cui sta lavorando il gruppo di parlamentari legati a Renzi. Le uniche differenze riguardano il bonus di governabilità al 55 per cento dei seggi, proprio come nella legge Calderoli, e la soglia di accesso al 5 per cento per arginare la frammentazione partitica. Una proposta che rivela affinità con il doppio turno di lista o coalizione messo a punto da Luciano Violante nel Comitato dei Saggi sulla revisione costituzionale. E che è stato fatto proprio dal principale rivale dell’ex fautore della rottamazione nella corsa alla guida del Nazareno, Gianni Cuperlo.

La logica politica del proporzionale corretto

Una visione che vuole risolvere per legge il problema della governabilità in un terreno proporzionale: garantendo per la coalizione vincente un premio stabilito a priori. È il bonus di maggioranza, alterazione artificiosa della rappresentanza popolare, a definire l’entità di una vittoria nelle urne. Emerge la filosofia che ha governato e ispirato le proporzionali corrette della storia italiana, dalla legge Acerbo del 1923 alla legge Scelba-Gonella del 1953 fino al Porcellum. Tutte, come la normativa delle grandi città, rendono obbligatorie e inevitabili le alleanze più larghe e plurali per vincere. Strategia che il Renzi del 2013 persegue ricercando interlocuzione e accordi in più direzioni, come rivela la presenza di Riccardo Nencini e Gennaro Migliore alla kermesse fiorentina e il confronto con la componente liberale di Scelta civica. Una geometria di intese che troverà sbocco nella formazione di un’alleanza eterogenea, in antitesi con la vocazione maggioritaria del Pd a cui l’aspirante leader democratico in polemica con Pier Luigi Bersani si era richiamato nelle primarie 2012. E in omaggio alla quale nel giugno 2009 l’Assemblea nazionale del Pd aveva votato all’unanimità l’impegno a realizzare una riforma elettorale integralmente maggioritaria uninominale di stampo francese.

Perché funziona il modello dei sindaci

Il trasferimento sul piano nazionale del meccanismo elettorale delle grandi città presenta poi evidenti incognite. È basato sull’elezione popolare del primo cittadino che trascina con sé la maggioranza consiliare, e sulla regola del “simul stabunt simul cadent” per cui la caduta della giunta provoca automaticamente l’auto-scioglimento dell’assemblea e il ritorno alle urne. La neutralizzazione dei poteri dell’assemblea cittadina, priva della libertà di revocare la fiducia all’esecutivo tipica del regime parlamentare e dell’indipendenza dal governo propria degli assetti presidenziali, rende “efficiente” il “modello dei sindaci”. Ma è ipotizzabile una mutilazione delle prerogative del Parlamento rispetto a un premier legittimato dai cittadini? Le regole dei grandi comuni producono poi un tasso elevato di astensionismo nel turno decisivo. Favoriscono la creazione, grazie al voto proporzionale per liste di partito, di alleanze variegate salvaguardando il ruolo di ogni forza politica che mina la coesione e l’uniformità della coalizione e dell’azione del governo. E con l’istituto delle preferenze alimentano i costi per le campagne elettorali, il clientelismo e il voto feudale per appartenenza, la corsa alla competizione tra candidati dello stesso partito, l’egemonia dei potentati locali, le occasioni di corruzione, ricatti, scambi occulti, inquinamento e influenza criminale sul territorio.

La logica e gli effetti del maggioritario uninominale

Conseguenze che, tranne il rischio astensionismo nella versione a doppio turno, non si riscontrano nel voto maggioritario di collegio. Rispetto al proporzionale con preferenze, l’uninominale lega rappresentanti e corpo elettorale di un’area geografica ristretta in un rapporto di conoscenza, trasparenza e responsabilità. Soprattutto se la scelta dei candidati è attribuita a primarie locali o al coinvolgimento dei cittadini del territorio. Anziché fotografare e raccogliere i partiti in due coalizioni multiformi, li spinge a mettersi in gioco, trasformarsi, aggregarsi per confluire in poche grandi formazioni unitarie e riconoscibili. È un formidabile incoraggiamento verso il tendenziale bipartitismo come nel Regno Unito, o verso esecutivi imperniati su una grossa forza egemone come in Francia. E a differenza del proporzionale con premio di governabilità, conferisce al libero voto dei cittadini la facoltà di formare le maggioranze parlamentari, stabilendo collegio per collegio l’entità della vittoria e della sconfitta delle formazioni in gioco.

L’ostilità del mondo politico al collegio maggioritario

L’introduzione del maggioritario uninominale viene respinta da gran parte dei partiti con una motivazione ricorrente: nel panorama tripolare scaturito dal voto di febbraio esso non garantirebbe la governabilità. Ma lo stallo politico è emerso in presenza di una legge proporzionale con premio di maggioranza. E pur con eccezioni come la tornata del 2010, l’esperienza della Gran Bretagna, patria del first-past-the-post, rivela che di norma la competizione aperta e imprevedibile nei collegi fra 3 grandi forze – Conservatori, Laburisti e Liberali – si risolve con la vittoria netta e con la conquista della maggioranza assoluta dei seggi da parte di un unico partito. Forse è proprio la natura incontrollabile del voto maggioritario uninominale la ragione per cui tale meccanismo viene rifiutato dalla totalità delle oligarchie politiche. Compreso l’ex fautore della rottamazione anti-partitocratica.


CONDIVIDI SU:

Gallerie fotografiche correlate

×

Iscriviti alla newsletter