Una domanda, semplice ma che innesca dubbi e interrogativi: chi dimenticò, nella furia di privatizzare le banche, di non trasferire le quote della Banca d’Italia dal pubblico al privato? Nelle settimane in cui l’esecutivo delle larghe intese è al lavoro per stendere materialmente in accordo con la Banca d’Italia un piano di rivalutazione del capitale dell’istituto centrale (per dare un beneficio indiretto anche alle banche azioniste di Palazzo Koch) alcune riflessioni dell’ex ministro delle Finanze, Rino Formica, sono utili per riportare le lancette del tempo indietro di alcuni anni e ragionare a bocce ferme su errori (passati) e svarioni (presenti). Con un richiamo preciso che lo storico esponente socialista rivolge alla stampa “distratta”.
Qui Palazzo Koch
Scaduto il termine fissato dalla legge per ripubblicizzare la Banca d’Italia, ma senza che nessuno abbia inteso intervenire almeno fino questo momento, torna di attualità il destino di Bankitalia. Interrogato da Formiche.net su come giudichi il lavoro della speciale commissione che sta attenzionando il peso di Bankitalia e alla quale partecipa l’ex premier tecnico greco Lucas Papademos (lo stesso che avallò i rabberciati conti greci prima di mettersi alla guida del governo tecnico nel pieno dell’eurocrisi), Formica si chiede perché nessuno a sinistra abbia ripreso la violenta nota di Tito Boeri su “L’associazione a delinquere di Banca d’Italia”.
La denuncia di Boeri
In quella circostanza Boeri aveva toccato, dalle colonne de Lavoce.info, il nocciolo della questione (almeno a suo modo di vedere). Ovvero che “si è creata una specie di associazione a delinquere che rischia di far passare in secondo piano anche il lavoro del gruppo di esperti”. Il problema, rifletteva, è che questa rivalutazione “collusiva lascia un’eredità pesantissima sui contribuenti futuri, perché dovranno d’ora in poi pagare per il tramite di Banca d’Italia dividendi più alti agli istituti di credito privati”. Mentre mantenendo l’attuale riparto a un millesimo delle quote, i dividendi distribuiti salirebbero a circa un miliardo all’anno rispetto ai 45 milioni attuali. “Inoltre, prima o poi, la banca centrale, quindi tutti noi, dovranno ricomprarsi le quote a prezzi che sono stati artatamente gonfiati per esigenze di breve periodo. Le generazioni future, che hanno già sulle spalle il fardello di un debito pubblico al 130 per cento del Pil, non meritano davvero di ritrovarsi anche un ulteriore punto di pil da pagare in eredità”. Per concludere che “Banca d’Italia, per quanto sia molto ben rappresentata nel Governo Letta, non sembra essere molto influente, almeno a giudicare dai tanti provvedimenti da esecutivo balneare sin qui adottati dall’esecutivo, dalle accise sulla benzina, alle tasse sui giochi e le sigarette, alle coperture fantasiose trovate per la prima rata dell’Imu e, in cauda venenum, alla decisione di destinare, con la manovrina appena varata, le entrate dalla vendita di immobili pubblici alla riduzione del deficit (anziché all’abbattimento del debito)”.
Il Formica pensiero
L’esponente socialista, più volte ministro della Prima Repubblica, pone un altro quesito: chi dimenticò, nella furia di privatizzare le banche, di non trasferire le quote della Banca d’Italia dal pubblico al privato? “Oggi – osserva – si parla di liquidare i soci ex pubblici ora privati della BdI con cinque o sette miliardi di euro. Ma dalla privatizzazione delle banche quotiste di BdI cosa ricavò lo Stato?”. Ecco che allora, sottolinea, “nel vuoto politico degli ultimi vent’anni tutti hanno potuto rapinare sotto lo sguardo distratto dei controllori”. Per poi riservare una stoccata a chi certi passaggi avrebbe dovuto cogliere o quantomeno su cui dovrebbe avere maggiore attenzione, la stampa. E conclude: “Se i giornalisti facessero più inchieste e meno scoop, forse riusciremmo a capire qualcosa in più”.
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