Molto numerose sono le polemiche attorno alle primarie del Partito democratico.
Non si tratta soltanto delle tradizionali vicende che hanno accompagnato anche in passato i congressi di partiti nazionali, più o meno grandi.
Oggi infatti si va al di là di semplici scaramucce pre-congressuali, per investire una questione di fondo che sembra tuttora non risolta dal Partito democratico. E forse non soltanto dal Pd.
Appare in questo momento necessario ricordare la frase con la quale Massimo D’Alema bollò il tentativo stesso del Partito Democratico: “un amalgama non riuscito“.
Da un lato infatti sembra sopravvivere (anche se in dimensioni progressivamente minori) l’idea che in fondo si tratti di una qualche continuazione del vecchio Pds di Achille Occhetto.
In questa visione residua infatti una astratta identità di sinistra, che ha bisogno di una esplicita alleanza con un distinto soggetto di centro per conquistare una maggioranza di governo. La vocazione maggioritaria, al contrario, parte dal presupposto che esiste un amalgama ben riuscito, e che in fondo il segretario del partito è (come lo stesso statuto del Pd afferma) anche candidato a Palazzo Chigi.
Ne consegue che nella antica lettura di un centrosinistra composto da due soggetti politici distinti, chiamati a votare alle primarie dovrebbero essere soltanto elettori assimilabili ai vecchi militanti, e non anche coloro che si iscrivono al momento delle primarie.
Questa appare dunque la distinzione di fondo che le primarie del Pd stanno vivendo: partito o popolo?
Abbiamo infatti assistito in tutti questi mesi ad una lunga diatriba tra una astratta vocazione maggioritaria alla Veltroni, ed un più tradizionale appello agli iscritti del partito. Alle elezioni politiche generali votano infatti tutti i cittadini, sì che le primarie per la candidatura a Palazzo Chigi devono necessariamente comprendere anche soggetti che, pur simpatizzanti per il Pd, provengono da altri partiti.
Siamo pertanto in presenza di una vicenda politico-partitica ancora non del tutto definita.
Se si guarda infatti alla Costituzione italiana originaria, possiamo constatare che in essa si fa riferimento ad un partito politico, che peraltro non è stato mai oggetto di una qualche disciplina legislativa, che ne definisse fino in fondo la struttura rispetto a quella di altre e generiche associazioni di diritto privato.
Non si è trattato di una semplice dimenticanza di attuazione costituzionale, ma – molto probabilmente – di una vera e propria decisione politica di lasciare alla evoluzione delle cose la stessa definizione del rapporto tra partiti e governo. Nella Costituzione italiana convivevano infatti sia l’antico principio liberal-democratico di divieto di mandato imperativo, sia l’esperienza concreta – che nasceva dalla Rivoluzione d’Ottobre – del partito-avanguardia della classe operaia, sia l’esperienza concreta di un movimento di ispirazione cristiana che rifiutava di vedere in un partito un soggetto anche formalmente distinto dalla gerarchia ecclesiastica.
Ciascuna di queste visioni di partito politico comportava pertanto forme molto diverse di primarie.
Quella di origine liberaldemocratica ha infatti finito con l’approdare alle primarie statunitensi che sono disciplinate per legge Stato per Stato, e che sono pertanto funzionali al sistema presidenziale Usa. Quella di visione sovietica è terminata con la fine stessa dell’Urss, ma residua in qualche modo in quanto tendenzialmente orientata più all’appartenenza di movimento che non alla genericità di cittadino-elettore. Quella di provenienza cristiana ha conosciuto e conosce il tormentatissimo rapporto tra fede religiosa e laicità dello Stato, quasi a vivere oggi l’antico detto evangelico “Date a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio”.
Ciascuna di esse risulta decisiva oggi in Italia proprio in riferimento alle primarie del Pd, che oscilla tra il dalemiano “amalgama non riuscito” e la veltroniana vocazione maggioritaria, per cui occorre che la stessa persona candidata alla segreteria del partito e alla presidenza del consiglio.
Occorre pertanto aver chiaro il fatto che le polemiche in corso sono non solo sgradevoli (ma consueti) “brogli” interni alla vita di un partito, ma riguardano la natura stessa del PD che vive questa complicata stagione di passaggio da una antica cultura identitaria di sinistra, ad una nuova vocazione tendenzialmente inclusiva anche di quella parte di elettorato non di sinistra, che risulta decisivo per la vittoria elettorale.