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Ecco chi sono i candidati alla successione di Dolan

Ancora poche ore e la conferenza episcopale americana avrà il suo nuovo presidente. Si chiuderà oggi, infatti, il triennio caratterizzato dall’energica guida del giovane arcivescovo di New York, Timothy Dolan. Dieci i candidati in lizza per la successione. La tradizione vuole che a essere eletto sia il vicepresidente uscente, e solo in due circostanze la prassi non è stata rispettata: nel 1960 e nel 2010, quando Dolan fu preferito a monsignor Gerald Kicanas, vescovo di Tucson e considerato dalle “vedute più aperte” e meno conservatore dell’arcivescovo di New York.

Favorito il vicepresidente, Joseph Kurtz

Così, il favorito di oggi, anche in virtù delle consuetudini, è Joseph Kurtz, arcivescovo di Louisville. Uomo dal profilo moderato, senza particolari slanci né a destra né a sinistra, è considerato da molti vescovi come l’uomo ideale per guidare la Chiesa americana nella conoscenza reciproca con Papa Francesco. Non è un progressista pronto ad andare oltre le aperture di Bergoglio e non è un arcigno conservatore desideroso di continuare la battaglia dai pulpiti delle chiese e dai salotti dei talk show contro la politica liberal di Obama ritenuta colpevole di mettere in pericolo i princìpi non negoziabili. Su questo fronte i pretendenti alla carica di capo dei vescovi d’oltreoceano non mancano.

Chaput e l’ala destra

Il più agguerrito è senza dubbio il cappuccino Charles Chaput, l’arcivescovo pellerossa di Philadelphia (sede tradizionalmente cardinalizia) che negli ultimi mesi non ha mancato di far sentire la propria voce perplessa circa alcune mosse del nuovo Pontefice. A luglio, mentre Francesco si trovava a Rio per la Giornata mondiale della Gioventù, Chaput diceva che “l’ala destra della chiesa non ha mostrato felicità per l’elezione” di Bergoglio, aggiungendo che “non si può immaginare che il Papa non sarà così pro life e a favore del matrimonio tradizionale come i pontefici del passato”. Notava amaramente, però, che “fino a oggi Francesco non ha espresso queste cose in modo chiaro”. E ancora, qualche settimana fa, in un messaggio alla diocesi di Philadelphia, irrobustiva il concetto: “Il diritto alla vita non è semplicemente una priorità, bensì è la questione fondamentale su cui poggia l’intera architettura della battaglia in difesa della dignità umana”.

Nuovo stile o chiusura a riccio?

Come ricordava l’autorevole National Catholic Reporter qualche giorno fa, con il voto di oggi i vescovi statunitensi hanno la possibilità di “mettere in campo un nuovo stile oppure di chiudersi a riccio”. Il bivio è chiaro, le alternative pure: una leadership arroccata contro aborto, eutanasia e nozze gay, oppure un presidente che “abbracci toni e stili propri di Papa Francesco”. Probabile, salvo clamorosi colpi di scena, che la soluzione sia mediana. Di compromesso. Niente Chaput, niente William Edward Lori (arcivescovo di Baltimora e anche lui in attesa della porpora), troppo in continuità con Dolan. Sì all’affabile Kurt.

Il modello Bernardin

Ma ogni voto nasconde delle insidie, come ben sa mons. Kicanas, che tre anni fa fu bocciato dal plenum. Ricordava ieri su Repubblica Paolo Rodari che il vescovo di Tucson “fu ritenuto troppo simile al defunto cardinale arcivescovo di Chicagno, Joseph Bernardin”. Quest’ultimo, “morto dopo aver subito l’onta di accuse di pedofilia poi dimostratesi del tutto false”, è ritenuto da molti come la figura cui si debba guardare in questo momento storico. “Per molti – prosegue Rodari – Bernardin fu un Bergoglio ante litteram: predicava la necessità per la chiesa di stare dalla parte dei poveri, ‘dal grembo alla tomba’ e di cercare sempre la strada per sanare le divisioni interne alla chiesa”.


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