Quando si pensa alla guerra moderna, quello che viene in mente sono le schermaglie degli eserciti con i terroristi e i ribelli sulle montagne dell’Afghanistan. Ma il volto del conflitto globale è in continua evoluzione.
In Out of the mountains, David Kilcullen, uno dei maggiori esperti mondiali in materia di conflitti attuali e futuri, offre uno sguardo approfondito a ciò che potrebbe accadere dopo la fine delle guerre di oggi.
Per l’autore è sempre più probabile che si verifichino nuovi conflitti in tentacolari città costiere, in slum peri-urbani che stanno “avvolgendo” molte regioni di Medio Oriente, Africa, America Latina e Asia, altamente connessi attraverso la Rete. Il suo è un libro sui conflitti e sulle città del futuro – megalopoli come Kingston, Mogadiscio, Lagos, Bengasi e Mumbai – e sulle sfide e le opportunità che quattro potenti megatrend – popolazione, urbanizzazione, insediamento costiero, e la connessione – stanno creando in tutto il pianeta. E su ciò che le città, le comunità e le imprese possono fare per prepararsi per un futuro in cui tutti gli aspetti della società umana – tra cui, ma non solo, conflitti, criminalità e violenza – stanno cambiando a un ritmo senza precedenti.
Ecco il suo pensiero in una conversazione con Formiche.net.
Cosa sono le “città ferali”?
La definizione di “città ferali” non è mia, ma del professor Richard Norton del Naval War College, per descrivere una città in cui il governo è collassato, ma che ciononostante non crolla o sparisce, ma si inselvatichisce, torna allo stato di natura. Emergono comunità locali e non statali che assumono il ruolo che un tempo era del governo. Mogadiscio è l’esempio più chiaro di questo tipo di città.
Perché tendono a concentrarsi sulla linea costiera?
Seguendo le leggi della fisica, come sempre, perché nella storia le città si sono sempre concentrate lungo snodi logistici, dove si muovono merci e persone. E secondo le leggi della fisica, è più facile muovere i flussi lungo vie d’acqua che di terra. Con un effetto cumulativo, le città esistenti, nate lungo vie marittime commerciali, attrarranno anche i nuovi flussi di inurbamento.
Si tratta di grandi snodi, che suscitano inquietudine ma che sono anche eccezionalmente vivaci e dinamici.
Sì, sono i motori dello sviluppo e della prosperità. L’85% delle principali attività economiche del mondo si sviluppa nelle città. All’interno dell’urbanizzazione i flussi possono naturalmente anche essere “cattivi”. Possono essere flussi di cose “cattive”: traffici criminali, armi, droga, che provocano violenza. Ma, molto più spesso, si tratta di flussi buoni in sé ma con flussi così rapidi e vasti da sopraffare la città. I movimenti di migrazione nelle città sono classici esempi di questo. L’idea tipica dell’ecologia urbana è interessante: la città come un organismo che può assorbire alcuni flussi, ma che inevitabilmente ne respinge altri, più tossici.
Ma lo Stato cosa può fare di fronte all’emergere di queste realtà urbane gigantesche e quasi auto-regolate?
Lo Stato non deve intervenire militarmente o unilateralmente in queste situazioni. Parliamo ormai di città così grandi che una forza militare potrebbe esservi risucchiata, senza che l’organismo-città quasi se ne accorga. Conquistarle, secondo il metodo tradizionale militare, non funzionerà più. Lo vediamo a Rio de Janeiro, dove la polizia e le forze di sicurezza cercano di operare, senza successo, con moduli vecchi, mentre si tratta di disegnare nuovi schemi relazionali con la gente che vive nella città. Inoltre, il commercio globale crea forti anticorpi verso flussi tossici, come dimostrano i dati sulla pirateria somala secondo cui le aree più connesse con il resto del mondo sono più ostili all’attività dei pirati.
Parlando di Somalia, un Paese che conosce molto bene: cosa pensa del ruolo stabilizzatore svoltovi dall’Unione europea nell’ambito dell’Eutm (European union training mission)?
Il ruolo svolto dall’Eutm è stato positivo, ha aumentato la resilienza delle comunità. Ma le condizioni generali della Somalia non sono buone. Dopo un iniziale miglioramento fino al 2012, hanno cominciato a peggiorare. La ragione è molto semplice: la missione Amisom, dell’Unione africana, dopo aver conquistato Mogadiscio, invece di restare lì e concentrarsi su quello che è il cuore sistemico della Somalia, si è espansa rapidamente inseguendo obiettivi politici, consentendo a Al-Shabab di infiltrarsi nell’ambiente urbano di Mogadiscio.
Queste megalopoli ferali sono anche temibili. Non c’è un modo in cui la politica potrebbe promuovere un diverso pattern di sviluppo urbano, per esempio sul modello delle medie città italiane o tedesche?
La politica può agire innanzitutto all’interno di questi organismi giganti, promuovendo inclusione nella vita politica ed economica della città. Tutti devono sentirsi partecipi, anche se dispongono di mezzi diversi. In termini di rapporti con lo Stato, devo dire che l’Europa sembra mostrare un modello interessante, che supera il vecchio dilemma che Machiavelli pensò per l’Italia delle città-Stato, realtà litigiose perché mancavano di un’autorità superiore. C’è un pattern di regolamentazione nelle grandi città europee che è fatto di norme municipali e di norme di Bruxelles. Non so ancora dire quanto sia positivo, ma è certo un adattamento in corso, che scavalca lo Stato.
Queste megalopoli dinamiche bussano alle porte dell’Europa, con effetti soprattutto in termini di forti flussi migratori.
Ma già secondo Mackinder il confine meridionale dell’Europa non era il Mediterraneo, bensì il Sahara. Il bacino mediterraneo è un sistema unico, e ciò che avviene nelle società nordafricane impatta direttamente su Spagna, Balcani, Grecia, Italia. L’aumento della popolazione che preme da Sud entra sul mercato del lavoro. È uno di quei flussi che in sé non è negativo o tossico, ma lo può essere se non viene gestito in modo da adattarlo alle città oggetto dei flussi migratori.