Come avevamo previsto sulle pagine di questo giornale, il negoziato a Ginevra del gruppo ”5+1” sulla proliferazione nucleare iraniana ha avuto un esito positivo, anche se i risultati sono parziali e temporanei.
GLI SFORZI DI OBAMA
Li ha avuti soprattutto per l’interesse del presidente Obama di vederlo concluso, cogliendo alla fine un successo dopo le numerose “murate” che aveva collezionato in politica estera. Tale interesse ha consentito di superare le opposizioni di Israele, delle teocrazie del Golfo ed anche della Turchia, nonché la manovra dilatoria della Francia, strumentale a qualche ricco contratto di armamento nel Golfo e alla tentazione francese di far vedere di esistere, creando difficoltà agli altri, in mancanza della possibilità di fare qualcosa di positivo.
MENO IMPEGNI PER GLI USA
All’interesse personale, Obama ha certamente aggiunto la valutazione che una distensione con l’Iran può preludere a una diminuzione dell’impegno USA in Medio Oriente e a un’iniziativa congiunta fra Teheran e Washington per attenuare i conflitti tuttora aperti nella regione, in particolare quello in Siria. Potrebbe avere riflessi positivi anche sulle tensioni in Iraq fra sciiti e sunniti (provocate dall’intransigenza del regime di al-Maliki) e su quelle in Libano fra gli Hezbollah e gli altri gruppi confessionali. Con la conclusione dell’accordo, Obama sa di suscitare l’opposizione dei suoi alleati del Golfo e di Israele, che si sentono traditi. È anche consapevole di rinunciare alla giustificazione della presenza militare USA nel Golfo conseguente alla proliferazione nucleare iraniana.
IL PERICOLO SUNNITA
Ciò conferma che minaccia prioritaria per Washington consiste nell’estremismo sunnita. In questo, i suoi interessi coincidono con quelli dell’Iran. E dei suoi affiliati. Teheran però li controlla, a differenza di quanto avvenga per i jihadisti da parte delle monarchie del Golfo. Esse tendono anzi ad allontanare dai propri territori le “teste calde”, che minacciano anche i loro regimi teocratici, clanici e tribali. Le difficoltà maggiori che incontrerà Obama all’implementazione dell’accordo di Ginevra sono interne. Il Congresso sta preparando nuove sanzioni contro l’Iran. Non provengono dagli alleati. Essi dipendono troppo da Washington per potersi opporre con decisione.
MEGLIO SENZA BOMBA
Per l’Iran, la disponibilità di pervenire a un accordo non è derivata tanto – o, almeno, non solo – dal peso che le sanzioni e il finanziamento del conflitto in Siria (costato finora quasi 10 miliardi di dollari) hanno sulla sua economia, né dal il timore degli Ayatollah di vedere lo scoppio di rivolte fra le masse di giovani disoccupati. I vantaggi della normalizzazione dei rapporti con gli USA hanno suggerito a Khamenei e Rohani una maggiore flessibilità sul nucleare. Di certo, essi si sono resi conto che “la bomba”, anziché migliorare, indebolisce la posizione geopolitica del Paese in Medio Oriente. Inoltre, la proliferazione nucleare contribuisce all’interno dell’Iran a rafforzare ancora il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica. I Pasdaran, al quale fanno capo gli impianti nucleari, si sono “allargati” eccessivamente nell’economia, in crescente competizione con gli interessi del clero. Anche in Iran, l’opposizione all’implementazione degli accordi con il “5+1” a Ginevra e al loro completamento proverrà dall’interno.
Ogni negoziato consiste in uno scambio di un interesse con uno della controparte. Per valutare un accordo, occorre paragonare le vincite e le perdite di ciascuno.
IL SUCCESSO AMERICANO
Gli USA hanno indubbiamente ottenuto un successo. A parte quello del prestigio di Obama, dopo la “nasata” presa in Siria, gli USA non potevano realisticamente ottenere di più, data la chiara improbabilità di far ricorso alla forza. La rinuncia d’intervenire in Siria era prova evidente al riguardo. Gli USA hanno ottenuto un rallentamento dell’arricchimento dell’uranio, la distruzione di metà di quello già arricchito al 20%, la rinuncia ad attivare il reattore ad acqua pesante di Arak, per la produzione di plutonio, e a installare nuove centrifughe. Hanno ottenuto anche un rigoroso regime ispettivo da parte dell’IAEA di Vienna e hanno creato le basi per una collaborazione con l’Iran, essenziale per la stabilità all’intero “Grande Medio Oriente”. Inoltre, una maggiore partecipazione iraniana alla fornitura di petrolio all’economia mondiale ne dovrebbe far diminuire i prezzi. Anche se ne soffriranno le imprese che sfruttano lo shale gas e i petroli non convenzionali, gli effetti saranno positivi per tutti, anche per gli USA. Essi hanno tutto l’interesse alla crescita dell’economica mondiale, perché faciliterebbe il finanziamento del doppio debito americano – commerciale e di bilancio. Con la stabilità in Medio Oriente, gli USA accresceranno il loro potere di attrazione del risparmio di tutti i Paesi.
LE CESSIONI DI WASHINGTON
Gli USA hanno dovuto cedere su di un punto che aveva da sempre rappresentato il loro “cavallo di battaglia”: hanno implicitamente riconosciuto all’Iran – anche se il loro Segretario di Stato John Kerry l’ha subito smentito – il diritto di arricchire l’uranio a scopi pacifici (sino al 5% di U235). Prima, Washington aveva sostenuto che Teheran non avesse il diritto di arricchire l’uranio né di riprocessare il combustibile spento, per estrarne il plutonio utilizzabile per costruire “la bomba”.
COSTI E BENEFICI PER L’IRAN
Anche per Teheran il bilancio fra benefici e perdite appare decisamente positivo. I vantaggi, come già accennato, non sono solo economici – legati non tanto alla disponibilità di fondi iraniani bloccati dalle sanzioni, quanto all’eliminazione delle sanzioni più pesanti: quelle relative alla fornitura di parti di ricambio per le installazioni petrolifere e gasiere e, soprattutto, alle assicurazioni delle petroliere.
Ad essi, si affiancano i potenziali benefici politici della normalizzazione delle relazioni con gli USA, necessaria per la definizione di nuovi equilibri nel Golfo. L’accettazione delle limitazioni poste alla proliferazione e un più stringente regime di ispezioni dell’IAEA di Vienna, sembrano sostanzialmente irrilevanti per Teheran. Come già suggerito su queste pagine, l’Iran – tanto superiore convenzionalmente nel Golfo – non ha particolare interesse a disporre di qualche ordigno nucleare. Ha comunque salvato la faccia con le sue concessioni sul nucleare.
UN PERCORSO A METÀ
In conclusione, sia per la comunità internazionale – leggasi gli USA – sia per l’Iran, i vantaggi dell’accordo di Ginevra superano nettamente quanto hanno dovuto pagare per esso. Si può affermare, che esso abbia ottenuto i migliori risultati che si potessero attendere. Beninteso, tale conclusione va confermata dall’attuazione completa delle misure previste. Le difficoltà maggiori derivano dalle resistenze interne – sia negli USA sia in Iran – all’accettazione completa di tutti i provvedimenti concordati. A parer mio, tali difficoltà saranno maggiori negli USA, data la frammentazione e polarizzazione del loro sistema politico. Dipenderanno anche dalla prosecuzione dei negoziati e dalla disponibilità di trasformare l’accordo da temporaneo (6 mesi) in definitivo e di estendere l’intesa fra Washington e Teheran a tutto il Medio Oriente. In proposito, esso determina condizioni più favorevoli per il negoziato Ginevra 2 per la Siria. Le capacità di pressione dell’Iran sul regime di Assad sono rilevanti. Si tratta di vedere fino a che punto i dirigenti dell’insurrezione, tanto divisi fra loro, potranno essere interlocutori credibili in un negoziato e, soprattutto, per l’attuazione delle misure concordate.
GLI SCONFITTI
Perdenti sono certamente Israele – che però trae vantaggio dal rallentamento della proliferazione nucleare iraniana, così come dalla distruzione delle armi chimiche siriane – e l’arco sunnita, Turchia compresa. Era all’offensiva, soprattutto per le difficoltà del filo-iraniano Assad in Siria. Con l’intesa russo-americana sulle armi chimiche e ora con le conclusione dei negoziati del “5+1” la mezza luna sciita è tornata all’offensiva.
LA POSIZIONE DELL’ITALIA
Per l’Italia, l’accordo di Ginevra rappresenta un’ottima notizia, dal punto di vista non solo politico, ma anche economico. Politicamente, per le ricadute che avrà sulla stabilità del Medio Oriente. Economicamente per i tradizionali ottimi rapporti che abbiano avuto con l’Iran, soprattutto da quando l’ENI di Mattei acquistò la fiducia di Teheran migliorando, a favore dei Paesi produttori, le royalties versate dalle compagnie petrolifere.