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Puntare sui mini job per fronteggiare la disoccupazione?

Come evitare una ripresa senza lavoro? Quali misure adottare per rovesciare il trend prospettato dai più autorevoli indicatori economici, per cui nel 2014 una crescita dello 0,6 per cento del Prodotto interno lordo si accompagnerà a un’ulteriore impennata del tasso di disoccupazione attestato al di sopra del 12 per cento?

Per rispondere all’interrogativo il giornale on lineIl diario del lavoro” diretto da Massimo Mascini ha promosso al Tempio di Adriano di Roma un convegno dal titolo “Le vie del futuro non sono finite”, che ha visto confrontarsi giuristi, economisti, imprenditori, sindacalisti, politici.

L’ANALISI DEGLI SCIENZIATI SOCIALI

Nessuno, spiega il sociologo Bruno Manghi, era stato in grado di prevedere una crisi che tutti hanno contribuito a costruire, “a partire dalla flessibilità sfuggita di mano”. Per questa ragione lo studioso ritiene essenziale promuovere sul problema lavoro una vasta riflessione e mobilitazione di energie, riavvicinando l’elaborazione culturale e le scelte politiche, come avvenuto negli anni Settanta attorno al tema dell’inflazione. Riguardo alle strade percorribili Manghi non crede alla validità di una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, né al reddito minimo obbligatorio “che alimenta il sommerso con misure assistenziali”. Piuttosto indica la via dei mini-job sul modello tedesco, “gettoni di lavoro” che valorizzano attività utili per la comunità e per il territorio.

LA VOCE DELLE IMPRESE

Un’altra proposta giunge da Elisabetta Caldera, direttore Risorse umane di Vodafone, costretta a un taglio del personale basata su contratti di solidarietà per 700 persone su un totale di 7.000 unità. Per la manager è doveroso promuovere l’alternanza tra scuola e attività professionali, e puntare su formazione e aggiornamento nelle fasi di disoccupazione a carico degli imprenditori e dello Stato. “Mentre è difficile immaginare una riduzione delle retribuzioni nel prosieguo della carriera per favorire l’ingresso nell’azienda di persone giovani”.

Tesi recuperate da Ivan Lo Bello, vicepresidente di Confindustria, il quale punta il dito contro “una realtà formativa che non fa entrare i ragazzi a contatto con il mondo lavorativo”. Una separazione rigida che comincia a incrinarsi grazie al decreto istruzione recentemente convertito in legge per cui nell’ultimo biennio delle scuole superiori, negli anni universitari e negli istituti tecnico-professionali post-secondari, sarà possibile l’alternanza fra studio e contratti di apprendistato. Così, rileva l’imprenditore, “potremo colmare il divario rispetto agli altri paesi europei per tempi di entrata, retribuzione e competenze professionali”.

Altra problematica è messa in luce da Roberto Maglione, direttore Risorse umane di Finmeccanica. Per il quale è più difficile assumere un lavoratore di qualità con un investimento di 30-40 anni che “traghettare” i dipendenti verso un pre-pensionamento con coperture e agevolazioni. La ragione risiede “in una contrattazione per cui a livello nazionale prevalgono veti ed elevata conflittualità ideologica, mentre sul piano aziendale o distrettuale emergono flessibilità e propensione agli accordi”. Ad accrescere la zavorra sulla capacità di creare occupazione è il clima di instabilità nella governance aziendale: “Provocato in Finmeccanica grazie a una gogna mediatica legata all’indagine giudiziaria sulla presunta corruzione nelle forniture aeronavali all’India, che ha coinvolto una realtà imprenditoriale all’avanguardia nel comparto strategico della ricerca tecnologica, militare e di sicurezza. E ci ha fatto perdere commesse per 600 milioni di euro”.

LA LETTURA DEI SINDACATI

Realtà di fronte a cui le organizzazioni rappresentative dei lavoratori scelgono di riproporre i tradizionali cavalli di battaglia. Gaetano Sateriale, coordinatore del Piano per il lavoro della CGIL, rilancia la carta keynesiana di “un intervento dello Stato per stimolare consumi e domanda interna, dare prospettive e indirizzi di politica e innovazione industriale: dalla messa in sicurezza del territorio e dell’assetto idrogeologico al ciclo dei rifiuti e alla riqualificazione urbana edilizia in chiave energetica, dal trasporto pubblico locale e alle autostrade telematiche”. Persuaso che le risorse per un programma di tale respiro esistano e debbano essere utilizzate meglio, l’esponente della confederazione di Corso d’Italia respinge le accuse di “pianificazione sovietica” rivendicando la più ampia flessibilità territoriale. Elasticità e gradualità che “devono guidare anche una lotta rigorosa contro l’evasione fiscale, per evitare il rischio che migliaia di piccole aziende, negozi, botteghe, officine, siano costrette a chiudere dalla sera alla mattina”.

Un’offensiva, puntualizza il segretario confederale della CISL Pietro Cerrito, assolutamente doverosa “per rispetto ed equità verso chi paga tante tasse per assicurare servizi sociali anche a chi le evade. E per riportare alla luce l’economia sommersa”. A suo giudizio anche la spending review può contribuire a rilanciare un circuito produttivo sano, per esempio centralizzando il meccanismo per cui 80 direttori generali di ASL devono riferire alla Corte dei Conti sui 109 miliardi di spesa sanitaria. Mentre sul piano della flessibilità contrattuale “è stato raschiato il fondo del barile, visto il livello retributivo molto basso che coinvolge migliaia di neo-assunti. Piuttosto dovremmo puntare sulle esigenze produttive locali per cui oggi centinaia di psicologi operano nelle reti di assistenza alla persona”.

LA PAROLA DELLA POLITICA

Piena condivisione sull’esigenza di alternare scuola e attività professionale con reali contratti di apprendistato viene espressa da Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro di Montecitorio. Il quale avanza due proposte. “Orientare a favore dei dipendenti e delle imprese, e non solo delle aziende come compiuto nel 2006, un taglio del cuneo fiscale accompagnato da incentivi robusti per l’assunzione di giovani, donne e over 50”. E “rovesciare la logica ispiratrice della riforma previdenziale di Elsa Fornero, che posticipando la fuoriuscita dal lavoro ne ostacola e ritarda l’entrata dei giovani”.

Ma l’interrogativo chiave è formulato dal giuslavorista Tiziano Treu, già responsabile del Lavoro e artefice della prima regolamentazione legislativa della flessibilità contrattuale: “Con le attuali condizioni di crisi e densità demografica e di fronte a un panorama eterogeneo di attività retribuite, come rendere universali i diritti sociali impedendo che si risolvano in privilegi corporativi e settoriali? Come evitare il ripetersi delle baby pensioni? Come affrontare il licenziamento senza giusta causa senza ricorrere al reintegro automatico come unico rimedio?”.

LA TESI DEL TECNICO MAURIZIO CASTRO

Una risposta prova a darla Maurizio Castro, docente di Relazioni industriali e Lavoro nel Centro studi “Adapt” creato per iniziativa di Marco Biagi. Già parlamentare del PDL – oggi sceglierebbe il Nuovo Centro-destra “perché crede nei partiti e non nelle corti” – ritiene essenziale oltrepassare una visione parziale dei diritti, per cui lavoratori, produttori, consumatori costituiscono mondi separati e conflittuali. “Tutti coabitano nella stessa realtà produttiva, che può vantare il diritto comunitario alla continuità mentre i lavoratori possono rivendicare i diritti di partecipazione allo svolgimento dell’attività e agli utili aziendali”. È per questo motivo che, “anziché una cittadella ristretta con mura alte a protezione degli insider”, l’economista preferisce “una città molto più ampia con mura più basse per accogliere nel Welfare anche gli outsider”. Esattamente come era scritto nel “Libro bianco” sul lavoro redatto da Biagi nel 2001.

LE SCELTE DEL GOVERNO

Nello stesso alveo culturale si inserisce Carlo dell’Aringa, vice-ministro del Welfare e del Lavoro, che chiede di riconoscere e separare l’intollerabile violazione dei diritti sociali come quello al lavoro scolpito nella Costituzione dai “sacrifici necessari e temporanei in vista di un bene superiore comunitario”. L’esponente del governo porta ad esempio il rapporto tra diritto acquisito alla pensione, assegni previdenziali d’oro e doverosi contributi di solidarietà. E guarda al terreno degli ammortizzatori sociali, “una mole rilevante di risorse ricevute come sostegno del reddito condizionato alla ricerca di una nuova occupazione. Ma che, specie nel caso della cassa integrazione in deroga, devono essere soggette a criteri rigidi di accesso e utilizzo”. È in fondo la logica che ha guidato la creazione dell’ASPI, il nuovo sussidio di disoccupazione previsto dalla riforma del mercato del lavoro realizzata dal governo Monti nel 2012. Un istituto da ancorare a politiche attive per il reinserimento lavorativo, “tramite una rete di servizi più importanti di risorse limitate in una fase di spending review”.



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