Tre ministri dimissionari e sette sostituiti successivamente: la più grande crisi di governo affrontata dalla Turchia nell’ultimo decennio. Il premier Erdogan non si è trovato tra le mani soltanto le lettere di auto-licenziamento di alcuni dei suoi più stretti collaboratori nell’esecutivo, ma un vero e proprio shock dell’intero sistema-Paese. La lira turca va a rotoli, la borsa ha perso 11 punti percentuali negli ultimi giorni, le proteste “ex Gezy Park” sono riprese con nuova linfa e nuove argomentazioni – senz’altro legittime.
Sulla superficie della questione, le gocce che hanno fatto traboccare il vaso sono rappresentate dai documenti dell’inchiesta giudiziaria che ha coinvolto i figli dei tre ministri dimissionari (Economia, Interni, Ambiente) con il direttore generale di Halkbank (importante istituto bancario a controllo statale) trovato in casa con 4.5 milioni di euro nascosti dentro una scatole per scarpe e altre 49 persone tra notabili imprenditoriali, quasi tutti Akp-linked: «la più grande operazione contro la corruzione nella storia della Turchia» – come è stata definita – riguarda vicende di appalti, trasferimenti di soldi in nero verso l’Iran, corruzione di impiegati pubblici, tutto legato alla costruzione di opere edilizie chiudendo un occhio – o anche entrambi – sulla effettiva destinazione urbanistica dei terreni.
Ma forse, dietro la storia, per certi versi banale, che ha aperto l’aspetto giudiziario della vicenda, si nasconde più in profondità, una più ampia crisi di sistema: l’apertura di una spaccatura – che si sta rapidamente trasformando in faida – all’interno del roccioso partito conservatore. Erdogan non è mai stato così in difficoltà, nemmeno durante le proteste di piazza di quest’estate. Difficoltà dovute all’assenza di compattezza nel partito, come nel governo: grossi blocchi sono franati e altri sembrano sul punto di staccarsi – l’influente politico dell’Akp Ertuğrul Günay, ha dato le dimissioni dal parlamento dicendo di non voler fare a meno della sua libertà. Il richiamo al complotto, alla congiura contro il governo, in nome di cui si sta compiendo la dura la reazione – dura come al solito – di “disturbo” di Erdogan (accuse sono arrivate a raffica soprattutto dal principale partito di opposizione, Chp), sembra stia servendo a poco: responsabili della polizia licenziati dai loro incarichi, magistrati minacciati (è stato rimosso il pm che ha condotto l’inchiesta, Muammer Akkas), procedure disciplinari interne contro i colleghi di partito che lo hanno criticato (difendendo la legittimità dell’inchiesta); operazioni che potrebbero portare all’insabbiamento dei processi, ma la reazione dell’opinione pubblica sarà difficile da controllare.
Manovre di disturbo che non colpiscono il nocciolo del problema: quella spaccatura che si sta approfondendo, all’interno del cosiddetto “Islam politico” su cui Erdogan ha appoggiato la sua storia, che gli ha permesso di liberare il Paese dalla tutela dei militari e di sperimentare un boom economico – seppur tra enormi contrasti e squilibri (economici e sociali) tra le aree urbane e quelle rurali – sul quale si basava larga parte del suo (forte) consenso. La crisi, sotto questo aspetto, ha un nome e cognome: e non si tratta di quelli dei tre ministri coinvolti – tra l’altro sembra che anche per il figlio dello stesso Erdogan sia stata effettuata una richiesta di arresto, finita vittima delle “operazioni di disturbo” del governo e non eseguita dalla polizia.
L’identikit corrisponde a quello di Fethullah Gülen, religioso musulmano molto influente, finanziere, che dagli Stati Uniti dove si è “auto-esiliato”, ha fondato scuole private in varie località mediorientali, a cui si abbina il movimento di pensiero socio-politico Hizmet (“servizio”). Hizmet ha sempre sostenuto Erdogan – specialmente nelle posizioni contro il predominio dell’esercito – ma negli ultimi periodi le cose stanno cambiando, e Gülen nel tempo è diventato una voce (alta) critica del potere erdoganiano. E proprio Erdogan (che pochi mesi fa aveva “aperto la guerra”, con l’annuncio di voler chiudere le scuole private, molte delle quali sono proprio di proprietà di Gülen), senza mai nominare il movimento o Gülen, ha più volte parlato di «complotto organizzato dall’estero», di «operazione sporca» e di «banda criminale», per creare «uno stato nello Stato».
La posizione del premier sta diventando però, sempre più isolata: la maggior parte dei laici e dei liberali non lo sostiene più. La dicotomia nella visione dell’islamismo turco tra Erdogan e Gülen (che si è detto estraneo ad ogni coinvolgimento), potrebbe far implodere l’Akp: con l’area guleniana che controlla molte posizioni di potere, tra cui i vertici della polizia – è per questo che le teste dei graduati hanno permesso gli arresti, sono state le prime a saltare – e diversi parlamentari, anche di spicco (come l’ex calciatore Hakan Sukur, amatissimo, che è uscito dal partito).
Ampliando lo scenario, si può osservare che certe situazioni non riguardano soltanto la Turchia. Come scrive il New York Times, si tratta di questioni che interessano più in generale la «praticabilità dell'”Islam politico”» interessando contesti diversi come l’Egitto – sebbene al Cairo i contrasti riguardino islamisti e laici (militari), mentre invece per Ankara si tratta di una questione interna, di due diverse visioni islamiste.
Proprio in Egitto, la decisione di pochi giorni fa, di dichiarare il partito dei Fratelli Musulmani illegale – utilizzando la leva dell’attentato di Mansoura (14 morti), che però non è stato rivendicato dai Fm, ma dagli estremisti di Ansar Beit al Maqdis – ha riportato la situazione indietro di qualche anno. Ai tempi di Mubarack, quando gli Ikhwan erano fuori legge (anche se “tollerati”): ora è stato approvato un decreto del governo controllato dai militari, che prevede che chiunque sostenga (anche solo verbalmente) i Fratelli, possa essere punito con cinque anni di reclusione – ieri 23 supporter, sono stati arrestati con l’accusa di terrorismo.
Sebbene diversa da quella turca, come s’è detto, le due situazioni sono accomunate dall’essere testimonianza del generale fallimento che quest’anno hanno avuto le scelte islamiste nella gestione politica degli stati: la vittoria di Morsi di un anno e mezzo fa, infatti, è stata cancellata da una posizione troppo rigida verso le forze laiche e una pessima visione sul piano economico – a cui ha seguito la nuova ondata rivoluzionaria dell’estate scorsa.
In Turchia si attendono le elezioni locali di marzo, per valutare la consistenza di Erdogan in vista delle presidenziali di agosto: in Egitto, invece, si attende “l’incoronazione” di Abdel Fattah al Sisi a presidente, con il ritorno definitivo dei militari al potere. Se dal lato turco, le questioni interne al partito conservatore, rischiano di minare il lento e complicato processo di crescita e affrancamento dal peso del controllo militare, a cui la democrazia turca si è sottoposta in questi ultimi anni; in quello egiziano, il rischio è che il ritorno all’illegalità dei Fratelli – e al potere militare -, possa spingere gli Ikhwan a spostare la propria azione sempre più verso la lotta armata.
Circostanze che rischiano di compromettere ulteriormente la precaria situazione dei due paesi.