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Un paio di consigli disincantati agli alfieri anti-euro. Parla il prof. Pennisi

Oggi dirsi contrari alla moneta unica non è un atto di lesa maestà, ma non è sempre stato così. Se in queste ore fioccano appelli e proposte di economisti che predicano l’uscita dall’euro (Bagnai, Borghi, Rinaldi) o una sua revisione (Piga, Realfonzo), nel 1992, anno di definizione del Trattato di Maastricht, erano pochissime le voci critiche verso il progetto di unione monetaria pensato da Bruxelles e dagli Stati membri.

Tra queste quella di Giuseppe Pennisi, economista ed editorialista che in una conversazione con Formiche.net spiega perché l’euro non sarebbe mai dovuto nascere con quelle caratteristiche e quel che si può fare per porvi rimedio oggi.

Pennisi, lei è stato contrario all’attuale impostazione dell’euro sin dall’inizio. Oggi le voci critiche fioccano, ma qualche anno fa non era così. Ha fatto proseliti?
Non certo se si riferisce ai colleghi euro-critici di questi ultimi tempi. Sono un po’ come gli ultimi dei Mohicani.

Ma come mai anche in Italia sta crescendo il fronte anti-euro?
Oggi con un alto disagio sociale (disoccupazione, povertà), l’euro è diventato un “monatto”, un untore e propagatore di peste a cui si attribuiscono tutti i mali. È un po’ come sparare sulla Croce Rossa. Le mitragliate anti-euro portano qualche (breve) consenso, ma pochi voti. Soprattutto in quanto si tratta di critiche strillate e spesso con pochi riferimenti alla storia economica ed alla teoria economica.

In che senso, ci sono precedenti storici all’attuale crisi della moneta unica?
Sono prossimo ai 72 anni. Nella mia vita adulta ho visto saltare 15 unioni monetarie, sovente da un giorno all’altro, non sempre a mercati chiusi. Le più ampie furono la zona della sterlina nel 1967 e l’area del rublo nel 1990. Ne ho visto sorgere una sola: quella dell’euro, nata sulla scia della riunificazione tedesca che la Francia temeva non avrebbe reso fattibile la continuazione dell’applicazione del Trattato del Louvre del 1987. Alla metà degli Anni Settanta – lavoravo in Banca mondiale – ebbi anche un ruolo del tentativo di evitare la fine di un’unione monetaria o quanto meno che le istituzioni di tale unione (principalmente telecomunicazioni, trasporto aereo, ferroviario e fluviale, banche di investimenti) onorassero i debiti contratti con noi. Quindi, ho avuto una certa esperienza anche pratica in materia.

Perché queste unioni monetarie sono saltate? E quali le loro differenze e analogie con l’euro?
Nessuna di esse teneva conto degli aspetti di fondo della teoria e dell’analisi economica. Ho avuto la fortuna di studiare con Robert Mundell, il Premio Nobel che ha formulato la teoria dell’area valutaria ottimale, con Randall Hinshaw l’artefice del ritorno alla convertibilità nei Paesi area Ocse, e Isaiah Frank che alternando carriera accademica con incarichi pubblici, è stato sottosegretario di Stato per gli affari economici negli anni in cui si preparava la crisi che portò alla fine del “regime” monetario detto di Bretton Woods.

Prof, veniamo all’attualità.
Credo che in Italia soltanto Domenico De Empoli, Antonio Martino ed io levassimo critiche teoriche e tecniche nei confronti del Trattato di Maastricht: dato che un’area dell’euro con le caratteristiche di un area valutaria ottimale avrebbe incluso unicamente Germania, Austria, e parte del Benelux, si pensò ad un “percorso predeterminato a tappe” perché chi aspirasse ad entrare potesse farlo nell’arco di dieci anni. Un lavoro più da ingegneri trasportisti (tracciare un percorso a tappe) che da economisti; a mio avviso, della sua attuazione si sarebbe dovuto occupare Padre Pio, il quale però ha cose di maggior momento di cui interessarsi… Le situazioni di partenza e le politiche economiche erano così differenti che soltanto un miracolo avrebbe portato alla convergenza delle economie reali per rendere fattibile l’unione monetaria.

Quindi la moneta unica era destinata a implodere sin dall’inizio?
I mercati lo capirono subito: sfiduciarono l’intero disegno nell’estate-autunno del 1992. Ma i politici (anche in dicasteri economici) sono spesso “zingarellianamente” ignoranti ed ossessionati da “bocciature”. Pochi sono illuminati come Michael Bloomberg, il quale un giorno a lunch mi ha detto che il suo colpo di fortuna è stato il licenziamento in tronco da Merrill Lynch che lo indusse a creare la propria azienda in un settore, l’informazione finanziaria, in cui sino ad allora non operava quasi nessuno. È possibile che una “bocciatura” in una tappa del percorso, sarebbe stata benefica poiché ci avrebbe indotto a realizzare le indispensabili riforme per la crescita del Paese, piuttosto che a stappare bottiglie di champagne ed a compiacersi con noi stessi tramite esercizi di masturbazione collettiva all’annuncio di essere stati accettati nel club dell’euro.

Quali economisti si opposero al progetto dell’euro in quegli anni? E lei cosa fece?
Portai a conoscenza dell’organo politico un saggio di Martin Feldstein e soprattutto uno di Alberto Alesina, Enrico Spolaore e Romain Wacziarg molto critici nei confronti del Trattato di Maastricht. Il risultato fu il licenziamento in tronco di Alberto Alesina dal Consiglio degli Esperti del Direttore Generale del Tesoro. Io non venni cacciato (il mio incarico era “onorifico”, ossia gratis et amore Dei). Non solo non venni cacciato, ma la presidenza del Consiglio pubblicò nel 1996 (allora ero alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione) un libro collettivo (con alcuni allievi) dal titolo “L’Europa così lontana, così vicina” in cui si esprimevano tutte le perplessità e Giuliano Ferrara mi affidò una rubrica quotidiana sul Foglio, 800 battute dense di rilievi critici. Difficile dire se si trattasse di liberalismo o di lassismo. La rubrica finì quando siamo stati accolti al “circolo dei nobili”. Pubblicai un breve saggio sulla Rivista di Politica Economica No.89 del 1999 in cui indicavo le condizioni che individui, famiglie, imprese, ceto politico avrebbero dovuto soddisfare per restare nell’unione monetaria senza farsi troppo male.

Che cosa consiglia ai prof. anti euro attuali?
Vorrei segnalare agli “ultimi dei Mohicani” che nel 2005 nel No.32 della Rassegna Italia di Valutazione il più giovane collega Lucio Mazzanti ha pubblicato un saggio di grande rigore, utilizzando le opzioni reali, in cui si metteva in dubbio che l’euro avrebbe avuto una caratteristica essenziale ad una moneta: diventare strumento di riserva. Dove erano allora?

Ma oggi quali sono le teorie più accreditate? E si sta facendo qualcosa per evitare che l’euro si disintegri?
È stato fatto molto lavoro, soprattutto da economisti portoghesi, su come riformare l’unione monetaria senza lasciare morti e feriti. Si stanno mettendo pezze al Trattato di Maastricht, la recessione continua, le tensioni crescono sia all’interno dei singoli Paesi sia tra Paesi dell’Eurozona. L’amico Jean Pisani-Ferry ha di recente sintetizzato come ci siano due possibilità: un “salto” verso l’unione politica (Padre Pio – mi dicono – ci ha rinunciato) un’unione decentralizzata i cui gli Stati abbiano piena sovranità in materia di politica di bilancio e dichiarino lo stato d’insolvenza se non sono in grado di fare fronte al debito, in modo che pure la banche vivano ed imparino a valutare il rischio. Si avrebbe una moneta unica senza una vera unione monetaria. Verrebbero penalizzate non solo le banche, ma anche i Governi incompetenti ed incapaci.

Condivide l’ipotesi di un referendum sul Fiscal compact?
La strada migliore sarebbe riscrivere il Trattato di Maastricht e far ratificare il nuovo testo dopo ampio dibattito parlamentare o, negli Stati che lo consentono, dopo referendum. Dovrebbe diventare punto centrale della politica europea dell’Italia. Anche se non è compatibile con baci in fronte e pacche sulle spalle.


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