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Ecco i dubbi (non solo liberisti) sulla privatizzazione di Poste

Dubbi e rilievi sulle privatizzazioni di Poste italiane decise da Enrico Letta. Ovvero: assenza di golden power, tetti al possesso azionario, rifiuto di una completa liberalizzazione del settore o di uno spezzatino per separare ad esempio Bancoposta. Nella consapevolezza che con questa mossa il governo mette sul mercato il 40% del colosso nostrano al fine di contenere il debito pubblico di 4-5 miliardi. Ecco uno spaccato di interrogativi di varia impostazione sulla dismissione avviata da Palazzo Chigi.

L’ECONOMIA SOCIALE DI MERCATO SECONDO QUADRIO CURZIO
“Uno scopo molto riduttivo se non correttamente inquadrato”, rileva sul Sole 24 Ore Alberto Quadrio Curzio, secondo cui è utile ricordare le tre fasi delle privatizzazioni italiane in passato: quella di avvio (1985-1995 per 20 miliardi di euro), quella imponente (1996-2005 per 127,5 miliardi), quella di riflusso (2006-2012 per 9,6 miliardi). E mette l’accento sul fatto che valutare le dimissioni in questione “solo per i ricavi devolvibili a ridurre il debito pubblico è distorsivo perché queste scelte incidono sull’economia reale di tutto il Paese”. Invece, al fine di attuare una nuova fase di privatizzazioni sul mercato o di acquisizione di soci industriali forti, “non bisognerebbe adesso tanto guardare alla riduzione del debito pubblico, dati i modesti ricavi, quanto ad una strategia di infrastrutturazione, industrializzazione e internazionalizzazione (“3i”) dell’Italia”.

IL RUOLO DI CDP
Ragion per cui Quadrio Curzio evidenzia il ruolo significativo di Cdp, un ente pubblico-privato “con più competenze e relazioni internazionali, in grado sia di elaborare un vero piano strategico sia di intermediare, anche con veicoli societari ad hoc, l’ingresso di soci industriali”.

GLI ALTRI RILIEVI DEL SOLE
Ma nei giorni scorsi, mentre altri liberisti erano stati sorpresi a sollevare critiche sulla privatizzazione parziale di Poste (“perché si trasferirebbero rendite dal pubblico al privato”) Il Sole 24 Ore avanzava altri rilievi, ovvero l’assenza di golden power e di tetti al possesso azionario. E’ il caso di un articolo di Laura Serafini, in cui osserva che “nell’elenco dei settori tutelati dalla golden power il settore dei recapiti non c’è neanche il tetto al possesso azionario è stato preso in considerazione dal governo Letta”. Invece, ricorda Serafini, “in passato, per i casi più noti come Enel e Finmeccanica, golden share e tetto al possesso azionario sono stati introdotti con appositi Dpcm prima del collocamento in Borsa delle società, dunque prima di cedere percentuali di minoranza attorno al 30-40 per cento”.

LA VISIONE LIBERISTA DI STAGNARO
Dove sono finiti quelli che “privatizzazioni e liberalizzazioni sono cose diverse”? Se lo chiede il direttore dell’Istituto Bruno Leoni, Carlo Stagnaro, dalle colonne del Foglio. Che osserva come l’operazione di dismissione della società guidata da Massimo Sarmi sia un pessimo affare “per lo Stato, per l’azienda e per il Paese”. Il direttore studi e ricerche dell’Istituto Bruno Leoni sostiene che “piuttosto che andare avanti così, meglio fermarsi”. Il nodo non si ritrova nella scelta (definita “discutibile”) di mantenere il 60% pubblico, ma all’interno della natura dell’operatore “dominante e nel contesto normativo in cui si colloca”. Su Poste “si fissa un animale mitico che sopravvive in un habitat del tutto innaturale”.

LE CONDIZIONI DEL FOGLIO
Stagnaro sottolinea che quando l’azienda viene parzialmente ceduta, chi compra lo fa a determinate condizioni con due conseguenze rilevanti. “Primo: rimuovere o rimodulare i sussidi e le altre protezioni legislative farebbe sorgere proteste, in parte giustificate, di chi, in fondo, quei sussidi e quelle protezioni ha pagato per ottenerle”. Per cui liberalizzare, non sarebbe più una “mera scelta politica”, ma comporterebbe riverberi precisi sul valore in borsa. In secondo luogo la duplice natura di Poste, mezza banca e mezza posta, “impedisce al mercato di prezzarla correttamente”. E cita uno scritto di Franco Debenedetti secondo cui le Poste sarebbero un ircocervo tagliato fuori da ogni fusione. Per queste ragioni boccia quella che definisce la “peggior privatizzazione della storia italiana, nel silenzio – distratto o complice che sia – di quelli che sempre puntano il dito contro i presunti mali delle privatizzazioni. Tocca ai liberisti dire not in my nane“.

LA POSTA DI GIAVAZZI SUL CORRIERE DELLA SERA

Un’occasione perduta. E’ la definizione della parziale privatizzazione di Poste secondo l’economista liberista Francesco Giavazzi, autore di un editoriale sul Corriere della Sera di oggi. Giavazzi tra l’altro scrive: “Il ricavo per lo Stato non è l’unico obiettivo di una privatizzazione. Il trasferimento di un’attività economica dal settore pubblico ai privati è anche l’occasione per migliorare la concorrenza nell’interesse dei cittadini. Le Poste sono una ragnatela di posizioni dominanti. Hanno un numero di sportelli superiore a Banca Intesa, che li ha dovuti ridurre per favorire la concorrenza. Attraverso la Cassa Depositi e Prestiti, il risparmio postale è investito nella Tesoreria dello Stato, non a tassi di mercato, ma a interessi negoziati. Quando i tassi scendono l’adeguamento del rendimento che il Tesoro paga avviene lentamente, generando un sussidio improprio dello Stato (cioè dei contribuenti) alle Poste e alla Cassa”. Il commento completo si può leggere qui.

DUBBI LIBERALI
Vengono dai senatori montiani Linda Lanzillotta e Benedetto Della Vedova, che con una interrogazione al premier, al ministro dell’Economia e al ministro dello Sviluppo economico sollevano dubbi sulla sua compatibilità con l’apertura del mercato chiedendo come l’esecutivo “intenda evitare che una rendita monopolistica sia trasferita ad eventuali soci privati” e “intenda realizzare l’obiettivo di favorire l’azionariato dei lavoratori evitando che esso si traduca in una mera rappresentanza sindacale negli organi di gestione, ma si sostanzi nella effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’andamento e gestione dell’azienda”.



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