Come hanno ricordato molti casi di cronaca recente, l’attuale modello delle fondazioni bancarie rimane uno dei nodi da sciogliere dell’economia italiana.
Mps, Carige,Tercas, Cariferrara. Sono queste alcune – e non solo le banche controllate dalle fondazioni bancarie – che devono affrontare i marosi della crisi.
I PIANI DI SACCOMANNI
Già a ottobre dello scorso anno indiscrezioni di stampa davano per certa una riforma delle fondazioni che il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, d’intesa con il direttore generale Vincenzo La Via e il responsabile Vigilanza sugli enti creditizi Alessandro Rivera, avrebbe preparato assieme a una nuova legge ad hoc che risolva i problemi di concentrazione, indebitamento e investimenti speculativi che hanno caratterizzato troppi enti vigilati. Sulla necessità di una riforma si è recente espresso anche il Fondo Monetario Internazionale nel suo rapporto sull’Italia pubblicato e settembre.
LUCI E OMBRE
Sull’ipotesi si espresse allora positivamente anche, l’Acri, rappresentata dal presidente della Fondazione Cariplo Giuseppe Guzzetti (nella foto), che sempre l’anno passato incassò gli elogi (ma anche qualche tenue rilievo) da parte di Via Nazionale, che ha voluto riconoscere alle fondazioni bancarie di aver “assecondato e sostenuto il processo di rafforzamento patrimoniale di alcuni tra i maggiori intermediari italiani” (parole del governatore di Bankitalia, Vincenzo Visco), ma anche la necessità di selezionare meglio i propri amministratori “con criteri trasparenti” e “sulla base della competenza e della professionalità“.
LE CONSIDERAZIONI DI MEDIOBANCA
Non tutto da buttare, dunque, anche se poi la riforma del settore venne accantonata e non se ne fece nulla. Ma l’argomento rimane di attualità, come testimonia un report diffuso oggi da Mediobanca Securities, gruppo londinese di analisti diretto da Antonio Guglielmi. Nel paper, realizzato dallo stesso Guglielmi e da Andrea Filtri, si pone in evidenza come già nel 2012 gli economisti di piazzetta Cuccia – in uno studio intitolato Italian Banking Re-Foundations – prendeva in esame 88 fondazioni di origine bancaria evidenziando il ruolo essenziale di sostegno tenuto dalle fondazioni nell’assecondare le decisioni strategiche delle banche e nel sostenerle con la sottoscrizione di spesso impegnativi aumenti di capitale. Mediobanca identificava però alcuni “punti critici” del loro assetto, la composizione dei consigli di amministrazione, le regole che sottendono alle erogazioni, i costi elevati di gestione, la bassa diversificazione fuori dalle banche e proponeva un confronto internazionale che evidenziava molte differenze. “Tra tutte la più rilevante – spiegò Mediobanca – è che alcune grandi fondazioni statunitensi, nate da progetti industriali, come Ford Foundation o Wellness Trust, sono completamente uscite dall’azionariato delle aziende d’origine“.
LA RICETTA DI PIAZZETTA CUCCIA
Oggi, nel suo report, Mediobanca Securities avanza una proposta, mettendo nero su bianco un modello di riforma delle fondazioni bancarie.
L’idea è di convertire alla pari le stakes delle fondazioni in Contingent Convertible capital (CoCos). Una mossa che gli analisti considerano opportuna per due motivi: da dicembre dello scorso anno il Parlamento italiano consente la deducibilità fiscale di questi strumenti, il che li rende convenienti; un vantaggio che si affianca al fatto che le banche trattano ancora a sconto sul sul book value.
Ciò, secondo gli autori dello studio, non scontenterebbe nessuno perché le fondazioni aumenterebbero i loro flussi di cassa significativamente (la cedola sul CoCo è molto più alta del dividendo sulle azioni); si migliorerebbe la governance; rimarrebbe invariata la capital adequacy delle banche; e gli azionisti di minoranza otterrebbero una discreta accretion. Ora la palla passa alla politica.