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Benedetto XVI e i limiti del potere

Un anno fa finiva il pontificato di Benedetto XVI. Si è parlato tanto della novità che il suo successore Francesco ha apportato nella Chiesa Cattolica e nel mondo. Un delicato velo di rispetto è calato, invece, su Papa Ratzinger. D’altronde, non è facile commentare un pontificato concluso con il protagonista ancora in vita. Ma, proprio per questo, bisogna, invece, coglierne il senso complessivo.

LE TRE FASI ACCADEMICHE

Lo stile di Benedetto XVI è stato molto intellettuale, anzi, forse meglio, accademico. Le tre fasi principali della sua vita di fede sono state segnate, infatti, dal medesimo comune denominatore di tipo culturale: professore di teologia prima, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede poi, quindi Vescovo di Roma e Papa emerito.

Nel passaggio dalla morte di Giovanni Paolo II alla sua ascesa al soglio di Pietro, Ratzinger si è subito guadagnato nel 2005, con l’illustre potenza del suo pensiero, la funzione di guida della Chiesa che avrebbe avuto dopo. E dai primi atti del suo magistero è emerso subito e con decisione il suo intento di fedeltà alla propria biografia e al carisma personale.

PAROLA D’ORDINE: SPIEGARE

La parola d’ordine è stata spiegare: illustrare e far accogliere la verità, per renderla comprensibile e vivibile a pieno.

Le sue Lettere Encicliche tratteggiano benissimo, insieme alle catechesi e ai discorsi magistrali delle Udienze, l’obiettivo di penetrare con l’intelligenza la fede cristiana, farla riscoprire come fonte di salvezza eterna, dall’Europa al mondo intero, mostrandola nella sua veste di Verità donata da Dio, assunta e compresa dall’uomo con la propria libertà e responsabilità.

Certamente non si è trattato di un lavoro eminentemente teorico. Anzi, il punto di convergenza e di coerenza del pensiero di Benedetto XVI restano piuttosto negli sviluppi pratici, direi perfino politici, del suo messaggio. Sia a Ratisbona, nel famoso Discorso agli accademici, sia, in seguito in occasione delle importanti visite in Germania, nella Repubblica Ceca, in Turchia, eccetera, Ratzinger ha presentato il Cristianesimo come il valido antidoto culturale alle tendenze negative del nostro tempo.

IL DIALOGO CON HABERMAS

Il documento che, probabilmente, compendia al massimo la critica rivolta alla violenza fideista, all’arbitrio della politica e al giuspositivismo, è il breve scritto molto noto, titolato Ciò che tiene unito il mondo, che trascrive il dialogo avuto a Beyern il 19 gennaio del 2004 con il filosofo Jürgen Habermas.

Quell’occasione era strategica, in effetti, per intervenire a tutto tondo sulle anomalie, sui problemi caratteristici, del nostro presente, presentando, con grande semplicità, alcune risposte valide e permanenti.

COME CAPIRE LA MODERNITA’

Secondo Ratzinger capire la modernità vuol dire, innanzitutto, intendere il Novecento, che è stato il secolo che ha espresso l’apoteosi del potere illimitato e arbitrario degli uomini. Thomas Hobbes ne ha definito la specificità, secoli prima, come espansione illimitata della forza umana di dominio sulle persone e sulle risorse materiali. I grandi totalitarismi hanno portato la dimensione del potere ai massimi livelli possibili, attraverso un controllo sistematico dei mezzi a disposizione dei governanti, generando così ben due guerre mondiali. Questa situazione si è protratta nei lunghi decenni della guerra fredda fino al momento in cui l’impero sovietico è stato sconfitto, ed è collassato. Ecco che dopo il 1989 l’auspicata palingenesi, tuttavia, non è avvenuta. Prima i nazionalismi, le lotte intestine tra le etnie compresse per decenni dall’Unione Sovietica, poi l’esplodere del fondamentalismo religioso hanno mostrato eloquentemente che era svanito soltanto un effetto, non la causa principale che aveva prodotto il male del secolo.

IL DESTINO DELL’OCCIDENTE

Nel breve scritto citato Ratzinger s’interroga sull’11 settembre e sul destino dell’Occidente in chiave globale. Il potere in sé non conosce limiti, e ovunque trova un terreno fertile per crescere oltremisura. D’altra parte, non c’è modo che l’acqua ponga argini a un fiume in piena. Ci vuole dell’altro. E il “compito della politica è proprio sottomettere il potere al criterio del diritto e in tal modo ordinarne l’uso sensato”.

COME FARE?

Il relativismo che è seguito al totalitarismo ha frammentato gli obiettivi, demandandone la giustificazione a criteri utilitaristi particolari, ma non ha diminuito le tragedie che ne derivano in termini di disumanizzazione e violenza. Ha reso il nemico più silenzioso e meno vincibile. Tuttavia, la sola libertà non è sufficiente a generare giustizia. Senza diritto oggettivo, infatti, non vi sono doveri soggettivi. E senza doveri soggettivi, regna la violenza reale o potenziale degli Stati.

Il diritto deve costituire, dunque, non la negazione del potere, ma la sua ottimizzazione, ossia un inquadramento della libertà nei limiti etici che sono indispensabili per garantire e realizzare ragionevolmente il bene comune, il bene di tutti. Il diritto è, in sintesi, il limite stesso del potere, un dovere indispensabile soprattutto per le nostre democrazie liberali. Che cosa, infatti, garantisce le prerogative delle minoranze? Non certo il potere delle maggioranze. Che cosa garantisce che le risorse naturali siano a disposizione di tutti? Non certo le esigenze dei paesi più ricchi o di quelli più popolosi.

IL VALORE DEI DIRITTI UMANI

A salvaguardare il bene comune nelle democrazie è sempre il riconoscimento che il diritto non è espressione del consenso, non è effetto del potere, bensì è la verità umana che precede e rende possibile la limitazione del potere nel dovere, facendolo restare nell’orizzonte legittimo di giustizia che gli è proprio. E’ questo il valore che hanno in sede politica i diritti umani: garantiscono i confini etici che rendono possibile l’esercizio corretto del potere stesso, sia esso politico o economico. Essi sono dei doveri morali, difendono la democrazia e la sua razionalità, assicurando un fine invalicabile nell’organizzazione delle forze e delle potenze tecniche della società.

IL PASSO INDIETRO

Un discorso grandioso questo di Ratzinger che ritroviamo come riferimento ideale di tutto il pontificato di Benedetto XVI, di tutta la dottrina della Chiesa e anche come senso profondo della sua rinuncia alla missione apostolica. Quando il potere, infatti, non può essere più limitato, non ci si può accontentare della diagnosi, ma si deve fare un passo indietro, riaffermando in tal modo il valore superiore dell’autorità spirituale sul gioco materiale delle forze in campo.

D’altronde, per Ratzinger questa è l’autentica importanza pubblica che hanno le religioni per la politica. Esse limitano e purificano il cuore degli uomini, rendendolo docile alla verità dell’altro e garantendo così la reale autonomia di ciascuno. La stessa cosa fa, per suo conto, la politica per la religione. Limita il confessionalismo fideista, evitando il rischio del temporalismo che trasforma la fede in un progetto di potere disumanizzante. La distinzione tra le cose di Cesare e quelle di Dio perciò non è soltanto l’emblema della civiltà occidentale, ma è la grande Verità evangelica che ispira ogni etica democratica.

IL SENSO DEL PONTIFICATO

Il Pontificato di Ratzinger è stato, in definitiva, la più impegnativa e sistematica analisi del fenomeno del potere nelle sue diverse sfaccettature, e il più serio invito a ricercarne il fondamento nel diritto naturale universale e nel valore soprannaturale della fede, essenza ultima della razionalità politica e religiosa di ogni nazione. Una concezione nata e custodita in Europa, il cui valore qualitativo, però, oltrepassa le frontiere culturali dei popoli e delle civiltà, divenendo principio generale di ogni democrazia degna di questo nome.

 


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