Le malattie, soprattutto quelle a carattere virale o batterico, sono state dei flagelli biblici che hanno, però, avuto il triste pregio di adattare progressivamente il genere umano e, soprattutto, alcune razze, alla coevoluzione delle varie flore batteriche e micotiche. I cacciatori di pelli della British Company operanti in Canada usavano coperte nelle quali avessero dormito malati di vaiolo per sterminare i nativi “indiani”, che non resistevano alla malattia come gli Europei, gli spagnoli conquistadores in America Latina portarono malattie, più o meno consapevolmente, che per noi erano banali (il raffreddore, l’influenza) ma per i locali erano mortali.
Oggi, malgrado la progressiva globalizzazione delle abitudini alimentari, le malattie e la “coevoluzione tra batteri e homo sapiens sapiens” abbiamo ancora malattie batteriche e virali che operano in modo ben diverso a seconda della immunizzazione naturale (e della dieta standard) delle varie popolazioni. Ma oggi, e ripetiamo l’importanza della globalizzazione delle abitudini alimentari e sessuali, oltre alla trasformazione climatica, quali sono le malattie, di origine virale-batterica e non, che caratterizzano la popolazione umana del globo? In primo luogo, come ci fa notare la WHO, World Health Organization, vi è un aumento generalizzato dell’aspettativa di vita delle varie popolazioni: 60 anni nei paesi a basso reddito, 80 in quelli che hanno sperimentato la affluent society del periodo d’oro tra il 1943 e il 1973, gli anni che l’economista francese Fourastiè ha definito “i quarant gloriosi”.
Quindi, gli effetti della occidentalizzazione, o di quella che oggi si chiama globalizzazione sono relativamente ma efficacemente diffusi nel mondo anche se, paradossalmente, come abbiamo visto, sono proprio gli USA ad avere una bassa età media e il parallelo costo elevatissimo dei loro sistemi sanitari e di social security. La mortalità infantile è però ancora elevata, oltre sette milioni di bambini muoiono, da 1 mese a cinque anni, ogni anno. Effetto implicito della “selezione avversa” che porta ad un aumento della vita media, ma, soprattutto, si tratta di un fenomeno estremamente asimmetrico: nell’Africa subsahariana il livello di mortalità infantile è 15 volte più elevato di quello verificabile nelle aree a maggior tasso di sviluppo, mentre ben la metà di tutte le morti precoci infantili accade in soli cinque paesi: India, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Pakistan e Cina.
I bambini muoiono di malattie, come ai tempi dei nativi canadesi infettati dal vaiolo delle coperte, che nel “Primo Mondo” siamo abituati a risolvere facilmente: polmonite (17%) complicazioni derivanti dalla nascita precoce (15%) diarrea ( 9%) e malaria (7%). Naturalmente, questa situazione porta, nei paesi interessati, ad una dissimmetria tra vecchi e giovani, con una minore disponibilità di nuove braccia da lavoro, di minore qualità biologica, e quindi di minore produttività, anche in contesti di economia di sopravvivenza. Per salvare molti di questi bambini basterebbero le tradizionali batterie di vaccinazioni di massa che l’Occidente ha conosciuto tra il XIX e il XX secolo, e soprattutto la diffusione della sanitizzazione delle acque e della “medicina di base” come oggi la chiamiamo in Europa. Naturalmente, queste situazioni critiche portano alla coevoluzione di malattie nuove e terribili, come Ebola, che si sviluppano in contesti di grande crisi sanitaria. Altro elemento di crisi globale della popolazione, soprattutto nel “Terzo Mondo”, è la crescita del numero di bambini nati prima della naturale scadenza.
Ogni anni oltre 15 milioni di bambini nascono prima dei nove mesi (o meglio delle nove lune) con una mortalità specifica di oltre un milione di bambini, in tutto il mondo. L’85% dei preterm babies nasce in Africa ed Asia, mentre gli altri bambini immaturi vengono alla luce in Europa e in America del Nord. Anche qui, parafrasando Kipling, potremmo parlare di un Black Man’s Burden: i bambini pretermine che sopravvivono sono spesso deboli, caratterizzati da ritardo mentale o da gravi limitazioni alla motilità e alla autonomia, e allora anche questo tende a limitare gravemente la possibilità di un “decollo economico” dei Paesi del Terzo Mondo. Ma anche il “Primo Mondo” ha i suoi punti deboli: tre morti su quattro, soprattutto se avvengono prima dell’età media locale, sono da attribuirsi a malattie cardiovascolari, che derivano da una dieta irrazionale e insana, dalla scarsità di movimento, da abitudini quali il tabagismo e l’alcoolismo. Le malattie cardiovascolari sono la motivazione del 30% di tutte le morti, sia nel mondo “sviluppato” che nel resto del globo.
Il 33% dei cittadini USA sopra i 20 anni soffre di ipertensione, mentre ben il 44% degli afroamericani mostra i sintomi di queste malattie. Obesità epidemica, diabete, trasformazione negativa, sulò piano sanitario, delle abitudini di vita: ma questo accade, lo ricordiamo, anche fuori dal contesto del “Primo Mondo”. Un altro elemento che la WHO ci fa notare, tra i più gravi per la salute globale, è l’espansione del virus HIV/AIDS sia nei Paesi Terzi che in Occidente. Ben il 70% di tutti i decessi causati dal virus dell’AIDS, la sindrome da immunodeficienza acquisita, avviene nell’Africa Subsahariana, che si conferma il punto critico mondiale per la salute umana, mentre il totale dei morti di AIDS nel mondo è arrivato, nel 2011, alla cifra rilevantissima di 1,6 milioni di vittime. Oggi, oltre 35 milioni di persone vivono avendo contratto, a vari stadi di gravità, l’AIDS, 3,3 milioni tra questi hanno meno di 15 anni, nel 2012 circa 2,3 milioni di esseri umani è stato ex novo infettato dal virus HIV, si tratta qui di una “malattia da globalizzazione” di abitudini sessuali, pratiche igieniche, stili di vita che, come è ovvio, trovano nelle popolazioni più povere e malnutrite una base ovvia per il loro velocissimo sviluppo epidemiologico.
Si metta anche nel conto che, in molti paesi poveri e marginali, gran parte della popolazione semplicemente non sa di essere infettata dal virus HIV. Collegato al problema delle nascite premature, vi è la crisi di mortalità globale per le donne incinte a causa di malattie dovute alla gestazione e alla nascita del bambino. 287.000 donne l’anno, con 10 milioni di donne che, pur non morendo nella fase di gestazione e parto, subiscono danni spesso gravissimi da infezioni, complicazioni ostetriche, danni all’apparato circolatorio. Un fenomeno, anche questo, che vede un gap tra Primo e Terzo Mondo, dove la mortalità o comunque il danno permanente alla puerpera o alla donna incinta colpisce almeno il 15% del totale dei parti. Ma c’è un’altra malattia che pensiamo “moderna” o comunque tipica dei Paesi sviluppati che, invece, sta diventando una delle grandi cause di crisi sanitaria globale: la depressione e la serie dei “disordini mentali” che, prima pensavamo tipici dell’esoterico salotto, ricoperto con innumerevoli tappeti orientali, di Sigmund Freud a Berggasse 19, Vienna.
350 milioni di persone nel mondo soffrono di depressione, con meno della metà di questo vasto numero che può permettersi cure adeguate. Paradossalmente, il paese più “depresso” è l’Afghanistan, con un 20% di malati nel totale della popolazione, e qui certamente i fatti storico-militari hanno il loro peso, mentre il Paese meno depresso è il Giappone, con meno del 2,5% sul totale della popolazione. Meccanismi identitari ancora forti? Un benessere diffuso in collegamento con l’atlissima aspettativa di vita del Sol Levante? I meccanismi scatenanti della depressione sono ancora, in gran parte, un mistero, ma certamente la situazione sociale, qui, è determinante per lo scatenarsi e l’evolversi della malattia. Nessuna malattia, nemmeno quelle batterico-virali, è priva di una adeguata e talvolta risolutiva sociogenesi e rilievo culturale. Ogni malattia è una alterazione del tessuto culturale, sociale, politico, psicologico, qualunque sia il trigger l’innesco dei suoi sintomi. Un altro tra gli elementi-chiave della crisi sanitaria globale che, come si vede, è sempre meno collegata alle infezioni batteriche e sempre più alle sindromi complesse di carattere biogenetico e sistemico, è quello, sempre per rimanere alle note del WHO, del difetto di udito, vista e dei correlati disordini mentali detti “minori”.
360 milioni nel mondo soffrono di caduta dell’udito in modo tale da rendere impossibile un’attività produttiva, spesso si tratta, soprattutto nel Terzo Mondo, di una disabilità derivante dalle malattie materne, o da difficoltà nel parto, o da malattie della prima infanzia come la meningite. Anche qui, la prevalenza di questa sindrome si ha in Africa Subsahariana, Asia del Sud e area del Pacifico. Si tratta qui, come abbiamo visto, di malattie della dipendenza, presenti in modo anche rilevante nel “Primo Mondo”, ma che nei Paesi in Via di Sviluppo sono sindromi tali da bloccare il take off economico e da creare una inevitabile dipendenza dalle ONG e dai governi del Primo Mondo. Con la conseguenza di far permanere sine die la povertà. Ma qui assistiamo, nell’elenco del World Health Organization, all’insorgere di una crisi sanitaria globale che viene direttamente dal Primo Mondo, anche se si sta diffondendo, come sindrome complessa, nel resto del globo: il diabete. Oltre il 10% di tutta la popolazione mondiale manifesta i sintomi del diabete, che insorge “ufficialmente” quando il glucosio nel sangue supera, secondo gli standard iuternazionali, i 126 mg/dl.
Secondo gli ultimi dati, si tratta di 382 milioni di diabetici nel mondo, oggi, con una percentuale dell’8,3% medio, e nel 2035 saranno, secondo i medici statistici, 592 milioni in tutto il mondo a soffrire di diabete. . La massima concentrazione di ammalati si trova, e anche qui ci sono sorprese, come per la depressione in Afghanistan, nei Caraibi, con la rilevante percentuale dell’11%, seguito dal Medio Oriente e dall’Africa del Nord con il 9,2% della popolazione in fase diabetica, e con picchi della malattia in Arabia Saudita, Turchia, Montenegro, con picchi rilevantissimi nella Micronesia e negli altri arcipelaghi del Pacifico. Non si tratta solo, quindi, di una malattia “dei ricchi”,l come si potrebbe pensare prima facie. La questione del diabete ci porta a riassumere qui una serie di considerazioni geopolitiche e culturali: Il diabete non “viene” perchè si mangiano troppi dolci, ma è una sindrome a forte determinazione genetica che viene favorita dallo scarso esercizio fisico e dall’alimentazione eccessiva e sbagliata.
Diffondere una cultura del cibo e della dietetica medica nel mondo, proprio da parte degli italiani che hanno sviluppato al massimo queste plurisecolari tradizioni, sarebbe già molto per evitare l’insorgenza del global diabetes. Lo stress, poi, favorisce il diabete, soprattutto quello di tipo 2, e ciò è politicamente rilevante nell’esaminare il nesso tra crisi dei modelli sociali, stress da innovazione rapida, malattie che si innestano tra le popolazioni interessate. Il diabete di tipo 1 è poi una malattia autoimmune, derivante dal mancato riconoscimento da parte degli anticorpi delle betacellule del pancreas che producono l’insulina. Le malattie autoimmuni, anch’esse, non sono più un privilegio del Primo Mondo. La reazione errata del sistema immunitario, che colpisce con “fuoco amico” i propri organi e, magari, non protegge l’organismo da fattori patogeni esterni e reali è una sequenza di malattie (ne sono classificate 24, ad oggi) che colpiscono sempre più tutta la popolazione del globo.
Elementi esogeni nel cibo, e nell’ambiente, sostanze che il corpo non conosce affatto e non riesce a “classificare” nella gestione del sistema immunitario e, infine, un niente affatto trascurabile apporto psichico all’innesco della sindrome autoimmune. Paul Ehrlich aveva parlato, all’inizio del XX secolo, di horror autotoxicus, quando il corpo, come accade con il terrore esterno, si blocca rispetto ad uno shock irriconoscibile, di carattere biochimico, che proviene dall’esterno. E comunque ogni malattia autoimmunitaria si riflette neli equilibri ormonali e nei sistemi di comando biochimico generale del cervello, quell’organo che, con straordinaria preveggenza, Cartesio definiva “un insieme di ghiandole”.
Il nesso tra psiche e malattia sarà, con ogni probabilità, uno dei grandi criteri di analisi nel futuro, e ci porterà a soluzioni interessanti, che già si cominciano a intravedere, nella diagnosi e terapia del cancro o nella gestione delle malattie (e alcuni tumori lo sono) di tipo, appunto, autoimmune. E sarà una grande sfida culturale, e politica, portare questo tipo di nuove terapie psico-culturali in ambiti esterni alle tradizioni soggettiviste, razionaliste, scientiste che hanno caratterizzato la scienza “galileiana” di radice occidentale. Un altro, tra i rilievi del WHO, riguarda non sindromi, batteri, virus e malattie complesse, ma la diffusione globale degli incidenti automobilistici, altro privilegio del Primo Mondo che si va diffondendo en masse nei Paesi Terzi. Oltre 3500 esseri umani muoiono tutti i giorni, nel mondo, a causa di incidenti stradali, e quindi si tratta di 1,24 milioni di morti all’anno. E solo 28 paesi al mondo hanno una legislazione e una prassi accettabile per prevenire, nei limiti del possibile, queste morti tragicamente inutili.
Quindi, le malattie infettive, siano esse di origine batterica o virale, hanno una logica terapeutica secondo il modello Pasteur: occorre uccidere gli “agenti cattivi invisibili” per arrivare ad un mondo privo di agenti patogeni. Ma il fatto è che noi abbiamo sviluppato una coabitazione evolutiva con i 2,1 trilioni di batteri che risiedono nel nostro intestino, e che sintetizzano, per esempio, il fruttosio o abbattono alcuni tipi di grassi insaturi. Uccidere i batteri cattivi porta all’abbattimento di quelli “buoni”, e molte malattie moderne nascono da questa logica clausewitziana della terapia ottocentesca contro batteri e agenti patogeni vari. Magari sarebbe necessaria, con l’integrazione, senza mitologie da sciocca New Age, delle terapie orientali di maggiore impatto, una strategia alla Sun Tzu nei confronti delle malattie, siano esse batteriche o sindromi più complesse, psicobiologiche e autoimmuni.
Ma non bisogna dimenticare che, nel mondo, ancora oggi le malattie infettive, da curare con la vecchia strategia di Pasteur (ma che non è affatto detto che non insorgano per motivi di più complessa origine) valgono il 16% di tutte le morti per malattia nel mondo. Malattie che riemergono dopo millenni, e che sono spesso a trasmissione animale, da ratti, pipistrelli, animali da cortile, e che sono sempre di più (altra condizione non-Pasteur) resistenti agli antibatterici specifici classici. La selezione darwiniana da parte delle terapie di massa di tipo Pasteur ha favorito, come in ogni vasta popolazione naturale, l’emergenza di ceppi virali e batterici resistenti ai farmaci, e che causano, dato che anche noi umani ci siamo adattati ai farmaci di tipo-Pasteur, effetti devastanti e spesso con correlazioni di tipo autoimmune.
Il colera, spesso endemico nei Paesi Terzi, e riguarda dai tre ai cinque milioni di infettati nel globo. Solo una piccola parte delle morti da colera viene riportata alle fonti standard del WHO, e si tratta comunque della cifra rilevantissima di 100.000 120.000 morti l’anno su 589.000 casi di infezione da vibrio cholerae resi noti ogni anno. E’ una malattia da periferie sovrappopolate, e quindi non è difficile prevedere, nei prossimi anni, un aumento delle infezioni vibrioniche proprio vicino alle global cities, che saranno facilmente infettate anch’esse. I vaccini orali sono ben noti, ma la stessa struttura sociale “a rete” e informale delle aree a rischio rende difficile il trattamento delle acque bianche e nere, origine dell’infezione, e la gestione di massa delle terapie.
Le aree a maggior rischio per l’infezione da vibrio cholerae sono, oggi, sempre secondo il WHO, sono Haiti e la Repubblica Dominicana, gran parte dell’Africa Subsahariana, il subcontinente indiano, parti della Cina costiera e dell’Asia del sud est. Anche l’influenza è un problema di medicina globale, e basti qui ricordare la straordinaria pandemia virale del 1918, che uccise tra il 20 e il 40% della popolazione mondiale. La Malaria, ne abbiamo già fatto cenno, è un fenomeno ancora temibile. Circa metà della popolazione mondiale è a rischio malaria. Nel 2012 la malaria ha causato 627.000 decessi, soprattutto tra i bambini africani, e questo elemento, tra gli altri già gravi, ci fa capire come la “formula demografica” del continente africano sia tra le meno adatte per il take off economico e, addirittura, per il mantenimento dell’attuale standard di economia di sopravvivenza. Vi sono 207 milioni di casi di malaria nel mondo, sempre ai dati del 2012, i più recenti, e, come abbiamo visto, la progressione del parassita è rapidissima.
Anche qui, è aumentata la resistenza ai farmaci classici antimalarici. Anche la tubercolosi, lo abbiamo già notato ma è bene ritornare sull’argomento, con dati allarmanti: 8,6 milioni di infettati da tbc nel 2012, con un progressivo secondo infettamento per malati di HIV, con 450.000 che hanno sviluppato una tbc farmaco-resistente. Il solito problema che insorge con le “vecchie malattie” che sono state trattate, all’inizio con grande successo, dalla farmacopea di tipo-Pasteur. Già una gonorrea antibiotico-resistente era apparsa in Vietnam nel 1967, e il 75% dei ceppi di alcuni tra i più comuni agenti patogeni sono ormai farmaco-antagonisti, e non sono abbattuti dagli antibiotici, spesso di classe evoluta, che dovrebbero contrastarli. La tubercolosi, anche nei Paesi Terzi, è sempre più resistente alla classica terapia con la rifampicina, e la WHO calcola che ci siano 630.000 casi nel mondo di tbc farmaco-resistente.
Occorre far partire gli investimenti per farmaci di nuova formulazione, e sappiamo che questo è un processo lungo e complesso, mentre i fondi della UE (2 milioni di Euro) e quelli messi a disposizione da alcune delle primarie aziende di Big Pharma sono di circa 3 milioni di USD, ma occorre cambiare la percezione del farmaco da parte dei consumatori, soprattutto in Occidente, che assumono antibiotici per ogni minima malattia e che favoriscono, proprio per i batteri più comuni, la selezione rapidissima di ceppi resistenti alle terapie. Deve cessare, in Occidente ma anche nei Paesi in Via di Sviluppo, la “magia del farmaco”, l’idea mitologica della pillola che risolve ogni problema, come la bottiglia di vino di Dulcamara nell’Elisir d’Amore di Donizetti, o della terapia che risolve la sindrome una volta per tutte, indipendentemente dall’ambiente e dalle abitudini di vita dei soggetti. Fra l’altro, il problema dei ceppi batterici (e tra poco virali) farmaco-resistenti è collegato alla globalizzazione del cibo, della quale ci siamo occupati in un altro precedente volume.
Gli animali da carne, polli, vitelli, maiali, perfino conigli (una delle carni meno allergeniche disponibili, secondo gli esperti) vengono allevati in modo troppo rapido e, peraltro, con forti dosi di antibiotici per evitare le malattie da sovraffollamento delle aree di permanenza degli animali, questo blocca il sistema immunitario delle povere bestie e, peraltro, non permette l’eliminazione degli antibiotici connessi al cibo, che passano direttamente a noi, senza che ce ne accorgiamo scegliendo una terapia. C’è un nuovo ceppo di salmonella resistente al CIPRO, uno degli antibiotici più potenti in commercio. Per non parlare della escherichia coli presente in molti preparati con carne della mass culture alimentare contemporanea, che possono sviluppare ceppi farmaco-resistenti e quindi portare a dissenteria, dolori addominali, malattie dell’intestino.
E inoltre, il ciclo naturale vegetale-animale-cibo umano è ormai saltato da molti anni: maiali e cavalli morti divengono cibo per altri animali, che sarebbero per loro natura vegetariani, e in queste operazioni industriali vanno a finire, nelle preparazioni alimentari per gli animali, anche grosse quote di letame (veicolo tradizionale della salmonella) e di materiale come l’arsenico e i farmaci ormonali o antibiotici usati per favorire l’eccessivamente rapida crescita dello stock di carne. Viene in mente il Canto XLV “Sull’Usura” di Ezra Pound, quando il poeta americano parla di un pane “secco come la carta”. Alle mucche vengono dati polli morti da mangiare, e ai polli mucche morte da mangiare.
E, ancora, i fertilizzanti sintetici che vengono usati massicciamente, soprattutto nei programmi di Green Revolution del Terzo Mondo, sono composti semplicemente dai macroelementi quali potassio, azoto, fosforo, ferro. Mancano completamente tutti i microelementi nutritivi del terreno che passano poi alla pianta e infine all’animale che li mangia, e poi all’uomo. Il pane è davvero “secco come carta”, e nutritivamente vale infinitamente meno del pane che siamo riusciti a mangiare fino a due decenni fa. La McDonald’s ha collaborato con la Monsanto per produrre patate che avessero, nel loro DNA, già la quota di pesticidi necessari per proteggerne la crescita. E se pensiamo alle “cosce di Bush” le cosce di pollo che il presidente USA inviò nella Federazione Russa nella fase più dura della carestia degli anni ’90 allora il problema geopolitico diviene radicale: o sosteniamo questa distruzione di potenziale genetico, sanitario, biologico per sostenere una produzione di cibo tale da garantire l’uscita dalla fame di molte popolazioni ancora in grave difficoltà per la semplice sopravvivenza, oppure limitiamo la disponibilità di cibo, migliorandone la qualità ma restringndone grandemente la quantità.
E, comunque, è da questa trasformazione del cibo che si sono diffusi i principali ceppi di batteri farmaco-resistenti. Inoltre, il costo sanitario e sociale della farmaco-resistenza, a parte gli investimenti per la ricerca di nuove sostanze antibatteriche, è elevatissimo: per i soli USA, si tratta di 21-34 miliardi di USD/anno, e per l’UE siamo a una cifra di circa 18,5 miliardi di Euro/anno. La Global Health Initiative lanciata da Barack Obama è finalizzata, e non potrebbe essere altrimenti, ad alcuni stati o aree-bersaglio, nell’Africa Subsahariana e in Europa Centrale, ma l’analisi dei costi della mancanza di salute è difficile da fare. Se calcoliamo una media di perdita di reddito del 34% in tutte le aree in grave difficoltà sanitaria, e naturalmente la cifra non può comprendere gli effetti a lunga gittata sull’equilibrio demografico tra le generazioni in età da lavoro, la disponibilità al lavoro delle donne, etc., allora il costo della mancata salute è di circa 14,2 trilioni di USD/anno. C’è qui da esaminare il costo delle malatti sessualmente trasmesse o comunque correlate alla fertilità. Molti i miti collegati a questa sequenza di malattie: che la pillola anticoncezionale eviti l’infezione, che la castità sia il miglior rimedio, o che i condom siano efficaci nella limitazione delle malattie sessuali. Le infezioni da Clamydia riguardano quattro milioni tra donne e uomini l’anno.
La gonorrea, sempre più farmacoresistente, infetta circa 5,2 milioni di persone l’anno, mentre la sifilide riguarda oggi circa un milione di donne infettate in tutto il mondo. L’Herpes vale circa 65 milioni di ammalati nel mondo, ai vari stadi della infezione, e la Tricomoniasi colpisce 170 milioni di persone l’anno nel mondo. Nei soli Stati Uniti, il costo globale delle STD, sexually transmitted diseases è di 15 miliardi di USD per anno in soli costi di terapia. Se quindi oggi sono 65 milioni al mondo a soffrire di malattie sessualmente trasmesse ed incurabili, con 15,3 nuovi casi globalmente ogni anno, allora, se estrapoliamo i dati standard per le cure in USA e in UE, allora il costo globale delle malattie sessualmente trasmissibili diviene, tra costi diretti e indiretti, di almeno 367 miliardi di USD/anno, sulla base dei dati induttivi già noti. Naturalmente qui non si può calcolare l’effetto sulla produttività, sulla distribuzione demografica e quindi produttiva delle popolazioni, sui costi non monetari delle STD. E c’è il grande problema delle allergie, che sono in forte crescita in tutto il mondo, soprattutto presso i bambini. Si tratta soprattutto di allergie da cibo, derivanti dal mutato stile alimentare e dal nuovo rapporto tra quantità e qualità nell’alimentazione infantile, e non solo infantile. E vale anche qui notare qunti disastri ha già compiuto la “scienza medica” ingenuamente positivista, come per la diffusione dei latti artificiali, negli anni ’50, che hanno portato a una veria e propria epidemia di lattime, eczema seborroico del lattante, che si è molto spesso sviluppato in asma bronchiale. L’artificiale, occorrerà ricordarlo ai medici come a tutti gli altri scienziati, non è mai del tutto sostitutivo del naturale, perché, come spiegava Immanuel Kant, c’è sempre e comunque differenza tra i cento talleri d’oro che ho nella mente e gli (eventuali) cento talleri d’oro che ho nella tasca.
Ma, tornando alle allergie, circa 250 milioni di persone, nel mondo, soffre di allergie per reazione al cibo, con una incidenza tra i bambini del 5-8% e, spesso, effetti disastrosi sul piano della gestione della malattia e degli effetti economici delle “crisi”. Le allergie alimentari crescono simultaneamente, e con ritmi similari, sia nei Paesi del Primo che in quelli del Terzo Mondo, e questo significa una minore presenza scolastica dei bambini ammalati, e una ben minore disponibilità al lavoro di questa fascia, sempre maggiore, di popolazione. Una malattia “da ricchi”, quella allergica, che incrocia il destino delle popolazioni più povere quando esse devono adattarsi a cibi, farmaci, climi ai quali non sono geneticamente abituati e che quindi generano, soprattutto nei bambini, reazioni di tipo allergico e di non-adattamento alle nuove sostanze del loro sistema immunitario. Sistema che è connesso inestricabilmente alla psiche: le allergie sono, spesso, cogenerate da uno stress psicologico, e pensiamo qui ai bambini con madri sole, o a quelli nelle villas miserias delle conurbazioni sudamericane, o alla solitudine e all’isolamento culturale dei quartieri sottoproletari/razziali delle grandi città USA. Ma qual’è l’effetto delle malattie nella conformazione demografica delle grandi aree che, come abbiamo visto, soffrono di più per le sindromi che abbiamo supra descritto? Vediamo.
La maggior crescita demografica, secondo le proiezioni dell’ONU avverrà, entro il 2050, nei seguenti Paesi: Burundi, (26,7% nella revisione 2012) Tagikistan (15,1%) Svizzera (11%) Oman (5,1%) Togo (14,5%) Etiopia (187,6%) Emirati Arabi Uniti (15,5%) Zimbabwe (26,3%) Camerun (48,6%). Oggi, circa 900 milioni di persone vivono nei paesi “meno sviluppati” ovvero con un reddito annuo di meno di 750 USD. Ma, proprio per l’effetto delle malattie che abbiamo studiato prima in questo capitolo, la quota della popolazione nei Paesi maggiormente sviluppati (Europa, Stati Uniti, Giappone, Australia, Nuova Zelanda) dovrebbe invece arrivare a 1,3 miliardi di esseri umani. Ma vi sono delle eccezioni, spesso di origine specificamente culturale, a questo trend. L’Afghanistan, per esempio, data la grande diffusione dei contraccettivi e delle pratiche di family planning, con una proiezione per il 2050 di soli 57 milioni di abitanti, meno del 25% meno di quanto era stato previsto nel testo ONU del 2012. Malgrado questo, prevedono i demografi delle Nazioni Unite, entro il 2100 la popolazione potrebbe espandersi almeno sei volte di più di quanto prevediamo oggi. Il mito del “dividendo demografico” è ancora diffuso tra gli analisti e i demografi occidentali: si tratta del nesso, ritenuto inevitabile, tra la crescita economica accelerata (che oggi non c’è) e il declino demografico conseguente, soprattutto nella struttura demografica della popolazione, con un aumento della massa in età da lavoro rispetto a quella impossibilitata alle attività produttive.
L’AIDS, per esempio, è una malattia endemica in Africa subsahariana, e produce una deformazione demografica che investe proprio le donne e gli uomini in migliore condizione per le attività lavorative. La malaria, per esempio, è una minaccia endemica per almeno 109 nazioni al mondo, 45 delle quali si trovano in Africa. Il 90% delle morti da malaria avviene nell’Africa subsahariana, con un costo per la mancata produttività di ben 12 miliardi di USD in tutta l’area. Da ciò deriva che la catena demografica tra vecchi e giovani, salvo fenomeni migratori, diverrà fortemente asimmetrica quando la quota di persone in età da lavoro non sarà più in grado di assumersi obblighi produttivi. Le nascite pretermine sono anch’esse un problema per l’Africa subsahariana: il 5% delle nascite di immaturi avviene in Europa, fino al 18% in tutta l’Africa e addirittura il 60% dei bambini pretermine nasce in Africa subsahariana e in Asia, un’area dove avviene il 52% delle nascite globali.
Le malattie cardiovascolari, di cui abbiamo già parlato, e queste sono collegate, nei PVS, Paesi in Via di Sviluppo, alla diffusione dell’AIDS. Dei 34 milioni affetti da AIDS nel mondo, ben il 69 % (23,5 milioni) vive in Africa subsahariana, pericardite, cardiomiopatie sono comuni nell’Africa già infestata dal virus HIV, e, anche se non ci sono abitudini negative come l’uso del tabacco e l’alcoolismo, la cogenerazione di malattie cardiovascolari nell’Africa subsahariana in relazione con l’AIDS è ormai un comune reperto per i medici che operano in quelle aree. Le complicazioni alla nascita e durante la fase di gestazione sono anch’esse diffuse nell’area subsahariana. Malgrado le nuove terapie e cure diffuse dai governi dell’area, che hanno sostanzialmente dimezzato la crisi gestazionale e la morte della puerpera alla nascita del figlio, la mortalità delle madri è diminuita solo del 3,1% ogni anno, molto meno della quota del 5,5% raccomandata dalle Organizzazioni Internazionali.
Metà delle morti della puerpera avviene oggi in Africa subsahariana, e circa un terzo di queste sindromi ha luogo in Asia meridionale. Ancora, i disordini mentali sono di casa, malgrado la loro fama di “malattie da ricchi”, nel Terzo Mondo e in Africa subsahariana in particolare: in tutto il continente nero abbiamo una diffusione, spesso da AIDS o da malattie parassitarie, di disordini mentali che riguardano ben 350 milioni di persone in tutta l’Africa, con una incidenza dell’area subsahariana del 63% del totale. Con un incidenza dell’epilessia che va dal 2-3,8% in Tanzania al 5% in Rwanda, mentre in Mozambico si verifica un dato straordinario del 13,2% di malattie mentali tra la popolazione, anche in rapporto alle condizioni sociali ed economiche dell’area. La perdita dell’udito, di cui abbiamo già parlato, copre nell’Africa a sud del Sahara una quota di ben 32 milioni di bambini, soprattutto in Africa subsahariana, Asia meridionale e area del Pacifico. A ciò si aggiunge la mortalità per guerre e scontri interetnici, che causa la morte di circa il 23,4% dei bambini entro il 15° anno di età. E per l’Asia centrale e meridionale, riguardo alle malattie a grande impatto demografico, quali sono i risultati attuali?
Le nascite pretermine sono, per quanto riguarda i bambini immaturi, sono per due terzi in Asia, e per il 61% del totale asiatico in Asia meridionale. Il caso di punta è il Pakistan, con l’India che segue a ruota. L’AIDS in Asia colpisce oltre 5 milioni di persone, con una quota maggioritaria di infettati in India ( 2.100.000) Cina (750.000) Indonesia (610.000) Thailandia (450.000) Vietnam (250.000) Myanmar (200.000) con poi il Pakistan Malesia, Cambogia e Nepal tra gli 87.000 e i 49.000, con rilevanti “colonie” di ammalati, rispetto alla popolazione, in Papua e nelle Filippine. Per quel che riguarda le malattie cardiovascolari, malgrado la sostanziale estraneità dei popoli asiatici al funo del tabacco, abbiamo un 18,7% di asiatici con alta pressione sanguigna, mentre il 3% circa degli adulti ha subito un ictus di varia natura. Per la questione delle malattie mentali, se è vero che gli USA, la Colombia, l’Olanda e l’Ucraina hanno, secondo i dati della WHO, la maggore percentuale della totalità dei disordini mentali già classificati, è pur vero che i disordini compulsivi-ossessivi sono dalle due alle tre volte più diffusi in America Latina, Africa, Europa di quanto non accada in Asia, dove la definizione di malattia mentale è collegata alla filosofia confuciana. La schizofrenia è maggiormente diffusa in Giappone, Oceania, Europa sudorientale piuttosto che in Africa, mentre i disordini bipolari sono equamente diffusi in tutto il mondo. Insomma, la salute (e il normale ciclo demografico) sono correlati più all’intero contesto sociale e alla “salute diffusa” che non alla prassi farmacologica tradizionale, che peraltro non è certo sufficiente per deformare in modo positivo, oggi, la relazione tra malattia e sequenze demografiche in tutto il Terzo Mondo.
Giancarlo Elia Valori
Honorable des Academie des Sciences
de l’Institut de France