Si ricomincia dall’inizio: secondo un piano svelato dal Wall Street Journal, la nuova strategia americana in Siria, prevederebbe la fornitura di missili anti-aerei e anti-carro ad alcuni gruppo “fidati” di ribelli, anche per aiutare l’offensiva che gli insorti starebbero per lanciare nel sud del Paese (zona di Daraa) – nel piano, in più, sarebbe incluso, sempre a detta del WSJ, il sostentamento economico per un buon numero di insorti, per il quale gli Usa avrebbero già versato 3 milioni di dollari.
Della necessità di una nuova spinta, ne aveva già parlato il Sec of State Kerry in quella riunione con la delegazione del Congresso ai colloqui di pace, di cui si era detto molto.
I colloqui, appunto: il fallimento è stato ormai certificato dal capo negoziatore Onu Lakhdar Brahimi, che ha chiesto “scusa” al popolo siriano per come sono andate le cose, sebbene abbia successivamente aggiunto l’impegno a rivedersi – anche se la promessa è abbastanza volatile, e per il momento non è stata fissata alcuna data.
Il ministro degli Esteri siriano Walid al-Moallem ha accusato gli Stati Uniti per il fallimento delle trattative, incolpandoli di «aver creato un clima molto negativo per il dialogo». Accuse rispedite al mittente da Kerry, secondo cui – ovviamente – la responsabilità è tutta del governo siriano (e dei suoi partner internazionali, Russia in primis), che non ha voluto nemmeno discutere del TGB (transitional governing body), documento proposto dall’opposizione per iniziare la transizione del potere verso democratiche elezioni.
Se si esclude la breve tregua che ha permesso, non senza problemi, l’ingresso dei convogli umanitari a Homs, il conflitto è ancora in piena attività e le atrocità di Assad non si sono minimamente arrestate (anzi, i bombardamenti con le barrel bomb sembrano essere aumentati sensibilmente, arrivando almeno a 100 nei primi 12 giorni di febbraio soltanto ad Aleppo, come riporta quest’infografica di Syria:Direct). Dati non ufficiali – l’Onu ha smesso di contare il numero dei caduti a inizio gennaio – parlano che i morti hanno raggiunto quota 140mila.
Il presidente Obama, che ha trascorso il weekend appena concluso a Rancho Mirage, deserto californiano, senza la famiglia (in vacanza ad Aspen) e accerchiato dai più stretti collaboratori – tra cui anche il Consigliere per la Sicurezza nazionale Susan Rice – avrebbe incontrato venerdì a cena re Abdullah II di Giordania. L’incontro con l’alleato strategico mediorientale trova una duplice ragione: innanzitutto, sembrerebbe che i missili (FN-6 di fabbricazione cinese) che dovrebbero passare ai ribelli, sarebbero tenuti in stand by all’interno di basi giordane (e turche) già da tempo. In secondo luogo si sarebbe deciso di mettere in operatività la war room creata proprio mesi fa in Giordania – e composta da rappresentanti dell’intelligence di 11 paesi (tra cui, oltre agli Usa, la Francia e gli alleati del Golfo). Il team dovrebbe coadiuvare proprio l’offensiva in preparazione al sud della Siria, dando supporto strategico e logistico.
Nella zona di mezzogiorno del Paese, s’è costituito il Fronte Meridionale, sotto la guida di Bashar al-Zoubi: formazione che raggruppa 49 gruppi armati (migliaia di combattenti), e che godrebbe della fiducia di Washington – tradotto, non ci sono grosse infiltrazioni jihadiste e Zoubi, uomo di al-Nusra, è controllato dai giordani. Diversi fonti già dalla serata di ieri, segnalavano intensa attività nell’area.
Secondo alcuni analisti, tra cui il corrispondente dalla capitale americana del CorSera Guido Olimpio, l’appoggio in Giordania diventerebbe importante non solo per la comodità territoriale – retrovia in cui sono appoggiate alcune squadre di forze speciali statunitense (e non solo). Ma il Fronte Meridionale acquisisce anche un’altra valenza, e cioè creare una zona cuscinetto che blocchi le infiltrazioni qaediste verso Ammam e Israele.
Il rischio è anche che i missili finiscano in mani sbagliate: il motivo principale per cui la Casa Bianca ha sempre ritenuto pericolosa l’opzione della fornitura missilistica è proprio questo – e l’approccio nonostante i fatti non sembra essere mutato. Ma la necessità di dare una sferzata alla situazione, trasmessa dallo stesso Obama quando alla conferenza stampa congiunta con Hollande la scorsa settimana parlò di «enorme frustrazione», avrebbe convinto il presidente.
Sarebbero i servizi sauditi e giordani ad occuparsi dell’affare: e Obama ha di sicuro a mente precedenti storici come l’Afghanistan, quando durante l’invasione sovietica la Cia fornì gli Stinger ai mujaheddin proprio attraverso le spie saudite, per poi correre ai ripari per evitare che i restanti missili finissero in mano dei terroristi (e magari contro gli stessi soldati americani); oppure con la Libia, quando nel 2011 i pezzi dell’arsenali di Gheddafi (i Sam e più moderni Igla) finirono a prezzi stracciati sul mercato, ricomprati da alcuni islamisti nel Sinai – uno ne è stato sparato pochi giorni fa contro un elicottero militare egiziano dal gruppo Beit el-Makdes, gli stessi che hanno rivendicato l’attacco kamikaze all’autobus di ieri a Taba .
L’obiettivo della Casa Bianca, resta comunque – almeno ufficialmente – quello di arrivare ad una soluzione diplomatica: sia per evitare di rimanere risucchiata in un’ulteriore escalation del conflitto, sia perché l’Amministrazione sa bene che un intervento diretto boots on the ground non sarebbe per niente gradito dall’opinione pubblica – di qui la scelta di far maneggiare la patata bollente dei missili alle intelligence alleate.
Ma per arrivare alla soluzione diplomatica, gli Stati Uniti devono recuperare la propria influenza sulla situazione – persa anche a causa della deriva jihadista assunta dal conflitto -, e piuttosto che incolparsi vicendevolmente con Mosca, trovare comuni strade di azione. Altrimenti tanto vale, iniziare a pensare di mettere quegli stivali a terra.