Uno strano clima accompagna in queste ore la genesi del governo di Matteo Renzi. Da una parte le attese di gran parte dei mass media nello slancio personificato dal leader del Partito democratico e nelle sue promesse di cambiamento radicale. Molto simili a quelle riposte in Mario Monti e poi in Enrico Letta nel momento della loro nomina a premier. Dall’altra la consapevolezza diffusa che la possibile “svolta” verrà neutralizzata dalla maggioranza eterogenea del nuovo esecutivo, dalle vischiosità e resistenze dell’apparato burocratico-amministrativo, dai rigidi dettami finanziari di Bruxelles che incombono come una zavorra sulle strategie per la rinascita produttiva.
Per capire se l’ex fautore della Rottamazione riuscirà a evitare le delusioni e disillusioni che hanno contraddistinto l’opera dei suoi predecessori, Formiche.net ha interpellato Luciano Pellicani, politologo e sociologo dell’Università LUISS “Guido Carli”, studioso e divulgatore del socialismo liberale e federalista, protagonista della polemica contro l’ortodossia marxista e teorico del rinnovamento del socialismo italiano alla fine degli anni Settanta.
L’atmosfera mediatica che avvolge l’ascesa di Matteo Renzi a Palazzo Chigi è densa di attese. Non rischiamo di aggrapparci a un’illusione che produrrà l’ennesima delusione?
Sì. Nell’opinione pubblica si avverte il bisogno di un leader forte e ogni volta si proiettano su un nome speranze e aspettative. È un fenomeno provocato dall’assenza da tempo di una direzione politica. E che alimenta le attese miracolistiche. Riguardo alla candidatura del segretario del PD alla guida dell’esecutivo io resto molto scettico.
Quale sarà l’avversario più insidioso per l’ex sindaco di Firenze?
Mi ha colpito in negativo il suo preannuncio di una riforma al mese. L’innovazione del fisco potrà essere portata a compimento ma con tutta probabilità produrrà risultati mediocri. La nuova architettura del lavoro è un obiettivo percorribile. Ma il profondo cambiamento della pubblica amministrazione e dell’apparato burocratico richiede anni e anni. Non vi è governo che non si sia posto il problema, ma i miglioramenti nell’efficienza e snellezza delle strutture statali non li abbiamo mai visti. E non credo che Renzi riuscirà nel miracolo. Così la sua agenda ambiziosa gli si ritorcerà contro in breve tempo.
Tra le ragioni della sua ascesa a Palazzo Chigi vede l’aspirazione a un ruolo nevralgico nell’imminente stagione di nomine dei vertici delle aziende pubbliche?
Certo. Ed positiva l’ambizione di riorganizzare i gangli del potere economico diffuso. Tuttavia, come spiegava Benedetto Croce, bisogna distinguere tra la “poesia delle promesse e delle aspirazioni e la prosa delle attuazioni politiche che spesso non ne risultano all’altezza”.
Assistiamo a un’operazione di Palazzo in contraddizione con le primarie dell’ex fautore della Rottamazione?
Sinceramente non ho compreso la ratio della scelta di Renzi e del Partito democratico di liquidare l’esperienza del governo Letta e di assumere direttamente la guida dell’esecutivo senza un passaggio elettorale. Non capisco se si tratti solo di ambizione personale.
Non vede personalità all’altezza delle sfide che deve affrontare il nostro Paese?
Vi sarebbe la necessità di una figura analoga al primo Bettino Craxi, che prese le redini del PSI e contro ogni previsione ne promosse un radicale rinnovamento culturale rompendo l’egemonia marxista e la subalternità all’asse DC-PCI, rilanciandone il protagonismo nel segno del socialismo liberale. Penso all’opera modernizzatrice intrapresa da Francois Mitterrand nella sinistra francese a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta. Ma il requisito è prima di tutto istituzionale.
Quale?
Bisogna conferire al capo del governo, in un quadro di pluralismo politico, gli stessi poteri del primo ministro britannico: primato indiscusso nell’esecutivo, forte legittimazione elettorale con il proprio partito, facoltà di nomina e revoca dei ministri, possibilità di provocare lo scioglimento anticipato del Parlamento. La nostra Costituzione, dominata per evidenti ragioni storiche dal timore del tiranno, è stata concepita per creare un assetto istituzionale acefalo.
Come giudica il PD che nell’arco di un anno è passato dalla ricerca di un accordo con il M5S al trauma del voto per il Capo dello Stato, dalle larghe intese sempre più logorate al profilo arrembante incarnato da Renzi?
Lo ritengo un soggetto politico destabilizzato e destabilizzante. Perché il governo del Paese dipende dai suoi rappresentanti. Mi chiedo fino a che punto esso sia un partito e non un semplice aggregato. Parlando con Emanuele Macaluso ho ricavato la percezione che definirlo partito è generoso. E non vedo soluzioni a breve termine.
Perché?
Le forze politiche si stanno liquefacendo. Sono sempre più frammentate e rissose. Gli stessi leader vanno tramontando. Nel PD si sono succedute nel corso degli anni una miriade di figure, da Massimo D’Alema a Pier Luigi Bersani. E tutte hanno fallito. Spero non fallisca anche Renzi, ma vi è il rischio che accada. Tutto dipende dall’andamento dell’economia internazionale. Noi siamo il vagone di un convoglio guidato da Germania e Stati Uniti. Dobbiamo sperare che la locomotiva aumenti i giri.
Ritiene che l’ex sindaco di Firenze voglia “rottamare” anche il Capo dello Stato dopo Enrico Letta?
Non lo so. So che i partiti, primo tra tutti il PD, sono andati a implorare Giorgio Napolitano di restare al Quirinale. A causa del numero crescente e incontrollabile dei franchi tiratori. Segno tangibile di una lacerazione patologica.