Tra le partite più complesse che attendono il governo di Matteo Renzi vi è il tentativo di superare l’egemonia dell’austerità finanziaria europea. La sfida è ardua, considerando la platea di istituzioni comunitarie ostili a ogni sforamento dei vincoli di bilancio sanciti nel Fiscal Compact. Le parole pronunciate dal commissario Ue agli Affari economici e monetari Olli Rehn risuonano come un altolà alle richieste di flessibilità per immaginare una strategia di investimenti produttivi e una moderna politica industriale.
È per riflettere e affrontare tale panorama che la Link Campus University di Roma ha organizzato ieri il convegno “Per l’Europa. Proposte per il semestre italiano di Presidenza europea”. Un’iniziativa, ha spiegato il suo presidente Vincenzo Scotti, ideata da sinceri europeisti stretti fra le invettive dei populisti e l’atteggiamento degli euro-retorici che senza spirito critico auspicano una fuoriuscita per inerzia dalla crisi.
Una grave responsabilità della prima Repubblica
È l’ex ministro dell’Interno a ricordare come fin dal 1978, quando venne discussa in Parlamento l’accelerazione del Sistema monetario europeo, l’allora governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi espresse perplessità per le ripercussioni negative di un cambio valutario fisso sulla capacità produttiva italiana. Dubbi condivisi all’epoca da Giorgio Napolitano, che al Parlamento europeo ha criticato l’austerità ad ogni costo.
Le critiche dei premi Nobel all’Unione monetaria
Austerità che, osserva Giuseppe Di Taranto, professore di Storia economica e dell’impresa presso l’Università Luiss “Guido Carli”, è stata assorbita nel nostro ordinamento grazie all’inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio: “Scelta compiuta senza mutare l’articolo 75 della Carta che vieta il referendum sui trattati internazionali, a partire dal Fiscal Compact”.
Per mostrare le incongruenze della costruzione economico-monetaria lo studioso ricorda che la mancata adesione di Regno Unito, Svezia e Danimarca al Trattato di Maastricht, concepito su parametri di crescita e non di crisi, non ne ha provocato l’espulsione dall’Ue. Rammenta che nel 1998, i premi Nobel Franco Modigliani, Paul Samuelson, Robert Solow proposero un ruolo più ampio della Banca centrale, affinché si trasformasse in prestatrice di ultima istanza per tenere i tassi di disoccupazione sotto controllo senza rinunciare alla lotta contro l’inflazione. E rimarca come Milton Friedman nel 1997 avesse scritto che “i tassi di cambio flessibili rappresentano potenti meccanismi di aggiustamento nei casi di violente crisi finanziarie. Mentre l’adozione dell’euro, nato per avvicinare Germania e Francia in un’Europa federale senza guerre, avrebbe trasformato in lacerazioni politiche gli shock economici convergenti”.
Così oggi, precisa Di Taranto, nell’Ue chi è in surplus resta in surplus senza dover fare nulla, mentre chi è in deficit viene punito oltre misura. È per questo motivo che Berlino si oppone all’introduzione degli Eurobond e vuole rinviare l’Unione bancaria. Il risultato è la deflazione. Per cui la speculazione finanziaria è passata dal corso dei cambi ai titoli di Stato, mettendo a rischio intere nazioni e vincolandole ai diktat della Troika.
Le proposte per il semestre di presidenza UE
Per uscire dall’impasse l’economista propone un pacchetto di iniziative in sede Ue. Cambiare i trattati istitutivi dell’Unione economico-monetaria per mutualizzare il debito degli Stati. Ridiscutere il Fiscal Compact che in vent’anni, con tassi di crescita e inflazione bassissimi, presenterà costi intollerabili. Riscrivere i rapporti del Patto di stabilità concepiti su osservazioni empiriche rivelatesi errate. L’obiettivo è orientare le risorse pubbliche verso investimenti produttivi per capovolgere il processo di desertificazione industriale, ridurre il prezzo dell’energia, incoraggiare la proiezione internazionale delle imprese.
Ma non basta. È necessario a suo giudizio cambiare lo statuto della BCE perché acquisti in asta e sul mercato i titoli pubblici al pari della FED, che ha calibrato l’immissione di liquidità sui tassi di disoccupazione: “Bisogna colmare il divario tra politica monetaria centralizzata e strategie fiscali eterogenee delegate alle nazioni europee”. Poi, rileva lo studioso, è bene prevedere un margine di flessibilità programmata nel cambio dell’euro, per offrire una ragionevole facoltà di svalutazione competitiva come avveniva con lo SME.
Margini ridotti per l’Italia nel consesso europeo
L’ambizioso progetto viene bocciato da Ferdinando Nelli Feroci, presidente dell’Istituto Affari Internazionali: “L’Italia potrà fare poco, visto che il blocco di potere egemone nell’Ue è legato all’austerità”. Più ragionevole, spiega il diplomatico, puntare su una flessibilità temporale nell’obbligo di riduzione del debito, favorire un più forte coordinamento nelle politiche economiche nazionali, rafforzare l’Unione bancaria. Nel breve termine è possibile allungare i tempi del risanamento mantenendo inalterati i target in cambio di riforme strutturali.
Il realismo invocato dall’ambasciatore, replica Paolo Savona, professore di Politica economica alla LUISS e presidente della Fondazione Ugo La Malfa, porta alla mancanza e perdita del lavoro: “Per il semestre di presidenza Ue il nostro governo deve rivendicare con dignità e onore il rispetto del Trattato di Maastricht avente come obiettivi l’unificazione politica e la crescita economica. Perché, ricordava Guido Carli, un’idea ben posta fa più rumore dei pugni sul tavolo”.
Il percorso virtuoso culminato nel Trattato di Maastricht
Ritornare al Trattato di Maastricht? È questo il cuore del problema, come spiega Giuseppe Guarino, professore emerito di Diritto pubblico e Diritto amministrativo all’Università “La Sapienza”. Nel Consiglio europeo dell’Aia del 1960 fu previsto entro il 1990 un percorso di integrazione economica e crescita armoniosa per un’equa concorrenza, favorito dall’adozione di una valuta comune fondata su cambi fissi. Finalità previste nel Trattato firmato nel febbraio 1992 i cui artefici, tra cui Guido Carli, erano consapevoli dell’illegittimità di parametri rigidi nei bilanci e non vollero elevare a dogmi intoccabili i vincoli del 3 e del 60 per cento.
Il tradimento di Maastricht
Per responsabilità dei governi e delle istituzioni comunitarie le norme e i contenuti del trattato non entrarono mai in vigore. A partire dal gennaio 1999, rimarca il giurista, fu applicato al suo posto il Regolamento comunitario 1466 del 1997 emanato dalla Commissione guidata da Jaques Santer e firmato dal responsabile per gli Affari economici Mario Monti: “È come se un decreto legge acquistasse più valore di una legge costituzionale”.
Il Trattato del 1992 attribuiva alle autorità nazionali le competenze per promuovere lo sviluppo con una politica economica liberamente scelta e con un tasso ragionevole di indebitamento. Alle istituzioni europee conferiva prerogative in campo monetario e il compito di omogeneizzare le politiche statali tramite direttive di massima e raccomandazioni non vincolanti nell’eventualità di inosservanza da parte dei governi. Nell’eventualità di fenomeni economici e eccezionali e perduranti, permetteva di derogare al rapporto tra deficit, debito e PIL.
Il regolamento comunitario, invece, introdusse la nozione della parità di bilancio nel medio termine al posto della stabilità dei conti come prospettiva, assegnando a Bruxelles “la definizione del percorso di risanamento Stato per Stato”. Una filosofia opposta a quella del Trattato di Maastricht, che ha ispirato i principali atti europei successivi e ha elaborato parametri comunitari calibrati sulla realtà tedesca, provocando profonde asimmetrie economiche nella Ue.