La scommessa dei socialisti europei è ambiziosa. Guidare l’Europa del futuro per imprimere una svolta epocale al Vecchio Continente che soffre sotto il giogo della crisi e dell’austerità. Ma la sfida lanciata al PPE e alla galassia euro-scettica e populista dal Congresso del PSE celebrato a Roma trova un punto debole nella rigidità ideologica e nell’ostilità verso le culture liberali. Esattamente il contrario di quanto accade da tempo nel Partito democratico Usa, che grazie al suo pragmatismo è riuscito a correggere le politiche economiche fornendo la risposta più efficace e tangibile contro la stagnazione produttiva.
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LA PRUDENZA VERSO L’AUSTERITA’
Allo stesso tempo il PSE rivela un approccio timido nel mettere in discussione l’austerità finanziaria a trazione germanica e la validità del Fiscal Compact. Strategie che oggi sembrano venir sconfessate dai loro interpreti più rigorosi come Mario Monti e Jean-Claude Trichet.
LE INCOGNITE SULL’ADESIONE DEL PD
Le assise socialiste, che annoverano 12 capi di governo socialdemocratici, laburisti, progressisti e democratici, hanno visto due appuntamenti di grande risonanza. L’incoronazione dell’esponente della SPD Martin Schulz a candidato per la guida della Commissione Ue nelle elezioni europee di fine maggio. Ufficializzata con 368 voti favorevoli e 2 contrari pari al 91 per cento dei delegati, la scelta premia il filone più robusto della storia progressista europea, con luci e limiti emersi nell’incontro con i giovani attivisti.
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L’altra decisione di rilievo, che continua ad alimentare interrogativi e critiche in Italia, è l’ingresso del Partito democratico nel PSE, approdo di un percorso avviato 7 anni fa. Adesione che dovrebbe allargare e arricchire di contenuti l’impronta socialdemocratica. Un primo risultato è già visibile: come per il gruppo parlamentare a Strasburgo, il PSE ha cambiato la propria denominazione in “Partito dei socialisti e dei democratici europei”.
Ma la partecipazione in forza di numerosi rappresentanti della sinistra del Nazareno, in primo luogo Pier Luigi Bersani, conferma l’ostilità verso il PD di stampo nordamericano, liberale progressista e a vocazione maggioritaria incarnato da Matteo Renzi fino a pochi mesi fa. A rendere ancor più nebuloso e in continua evoluzione il quadro è infine la presenza del leader di Sinistra e Libertà Nichi Vendola.
LUCI E OMBRE DEL MANIFESTO DEL PSE
Gli euro-socialisti hanno scelto un Manifesto programmatico, a cui ha contribuito la Fondazione europea per gli studi progressisti guidata da Massimo D’Alema, per rivolgersi a tutti i cittadini. Le idee-forza del documento sono molto precise. Creare posti di lavoro in un’economia produttiva, promuovere un’intelligente politica industriale imperniata su investimenti pubblici e incentivi alla ricerca, al credito, all’occupazione per le piccole e medie aziende. Ricostruire un clima di comunità, ridistribuire con equità le ricchezze, adottare un salario minimo europeo.
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Altro punto qualificante del progetto è la regolamentazione dei mercati finanziari e del settore bancario per porli al servizio dell’economia reale. “Perché non tutto può essere assoggettato alla logica di mercato e concorrenza. E perché vogliamo dire basta a sofferenza e sacrifici per le persone comuni mentre 1,6 trilioni di euro dei contribuenti vengono stanziati per il salvataggio delle banche”. Il PSE punta a costruire un’agenzia europea, pubblica e indipendente, di rating del credito. A procedere con forza sulla strada dell’Unione bancaria. A salvaguardare la libera circolazione dei lavoratori contro il responso del referendum svizzero sull’immigrazione, a combattere il dumping sociale e le retribuzioni al ribasso”.
Tuttavia, sugli strumenti e le risorse per realizzare un simile progetto prevale la vaghezza. Nessun cenno a capitoli di spesa da tagliare. Né all’istituzione degli eurobond per coinvolgere in una responsabilità comune il governo dei debiti sovrani. Nessuna parola chiara viene scritta sugli orientamenti in campo fiscale. Unico punto fermo è l’idea di attuare a livello europeo una tassazione rigorosa sulle transazioni finanziarie per limitare il più possibile la speculazione e creare un fondo per la formazione dei giovani.
LE AMNESIE DEGLI EUROSOCIALISTI
Accogliendo il PD nella grande famiglia socialista, il segretario generale del PSE Sergei Stanishev punta il dito sui risultati pessimi di cinque anni di “governo conservatore e liberale”: milioni di persone e giovani privi di lavoro, donne che vedono aggrediti i loro diritti fondamentali come in Spagna sull’interruzione di gravidanza. Ma il politico bulgaro omette di ricordare che l’esecutivo comunitario è frutto di un compromesso tra popolari, liberali e socialisti e che autorevoli esponenti del PSE vi partecipano in ruoli di alta responsabilità: Catherine Ashton agli Affari internazionali, Joaquìn Almunia al Mercato e concorrenza, Làslò Andor all’Occupazione.
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L’anelito all’alternativa sembra appannarsi anche nella politica internazionale. Alle parole solenni sull’impegno attivo per la democrazia e per i diritti umani, fa da contraltare un’estrema prudenza sulla crisi dell’Ucraina. Paese che deve restare unito, si limita a dire il segretario socialista. Nessuna iniziativa sui crimini dell’ex presidente Viktor Yanukovich, sulle strategie per evitare la guerra civile, sull’aggressione russa in Crimea.
RAFFORZARE LE BASI ECONOMICHE DELL’UNIONE
Una consapevolezza dei limiti e ritardi della proposta socialista si scorge nelle parole di Massimo D’Alema: “Un’Europa tecnocratica e priva di trasparenza ha acuito le diseguaglianze sociali e indebolito il Welfare europeo, producendo le risposte populiste e nazionaliste. Ma per costruire istituzioni politiche più forti e autorevoli, a partire dalla Commissione, è necessaria una legittimazione democratica che oggi manca”.
ARCHIVIARE BLAIR E SCHOROEDER?
Per l’ex premier cambiare l’austerità vuol dire coniugare rigore finanziario, libertà di investimento, supporto statale ai settori produttivi, peso delle tasse dal lavoro alle rendite. In tal modo, rimarca, potremo uscire da 30 anni di egemonia neo-liberista, giunta a mettere in crisi la legittimazione dello Stato, il Welfare europeo frutto del compromesso tra esperienza socialdemocratica e filoni cristiani. “Un predominio culturale che le stesse forze progressiste hanno accettato e assecondato”.
Tutto da archiviare quindi nella stagione che ha visto le innovazioni economico-sociali di Tony Blair e Gerhard Schroeder, motore di uno sviluppo dinamico e fattore di benessere e mobilità sociale visibili più che mai oggi? Sembra di sì, visto che sul palco nessun esponente del New Labour prende la parola.
LE VOCI LIMPIDE DI ATENE E BRUXELLES
Le parole più chiare sul dramma provocato dall’applicazione fanatica del Patto di stabilità vengono pronunciate non a caso da Evangelos Venizelos, responsabile esteri nel governo greco. Il rappresentante del PASOK invoca una nuova narrativa europea per conferire un senso al mercato comune e alla moneta unica. Chiede alle nazioni più floride di promuovere una Ue della crescita e del progresso sociale abbandonando l’austerità finanziaria: “Perché solo così potremo combattere populismi e nazionalismi”. Le sue riflessioni sembrano fare breccia nei governi del Nord Europa se il premier belga Elio Di Rupo parla di un giusto risanamento condotto a un ritmo sostenibile senza ridurre e tagliare i servizi sociali, e portando avanti una moderna politica industriale.
L’ADESIONE CON SFUMATURE KENNEDYANE DEL PD DI RENZI
Lontano dal sogno degli Stati Uniti d’Europa, Matteo Renzi rivendica le affinità con l’iniziativa del PSE. Parla di giorno speciale per il Partito democratico, e ricorda le lacrime della madre quando crollò il Muro di Berlino mentre per il figlio di 13 anni l’Europa è un luogo e una proiezione naturale. Contro ogni tentazione liberista evidenzia l’esigenza di non anteporre le libertà economiche ai diritti sociali: “Perché la grandezza dell’Europa è nell’offrire ai bambini di ogni ceto le stesse opportunità di educazione e ricerca”.
Poi ribadisce la necessità di risanare i conti pubblici e realizzare le riforme economico-sociali e scolastiche: “Non perché ce lo chiedono le istituzioni comunitarie ma perché rientra nei nostri obblighi verso le generazioni future”. Sceglie il richiamo a un discorso tenuto da John Kennedy nel 1962 agli studenti di un ateneo Usa: “Abbiamo scelto di andare sulla Luna entro la fine degli anni Sessanta non perché sia alla nostra portata, ma perché è un orizzonte apparentemente insormontabile”. Così, precisa il premier, deve essere la nostra Europa, non burocratica, amica dei ceti produttivi.