“In questa vicenda Renzi c’entra poco”, ammette subito l’ex ministro della Difesa “ulivista” Arturo Parisi che ragiona a voce alta con Formiche.net sull’ingresso del Pd nella grande famiglia europea del Pse. Renzi, guidato dall’ottimismo del suo volontarismo – dice Parisi – ha preferito chiudere con un passato concluso e aprire al futuro sperando che la scelta di ieri “più che un punto di arrivo” possa essere “un punto di partenza”.
E’ quindi un errore l’ingresso del Pd nel Pse?
L’errore è di sicuro il modo in cui ci si è arrivati. Tardi ma soprattutto male. Il Pd che aderisce al Pse non è infatti il partito che sette anni fa fondammo come un partito nuovo, come il partito che ambiva ad esportare in Europa la propria novità, ma un partito che si arrende a ri-importare dall’Europa in Italia le divisioni ereditate dal Novecento, le stesse che con la sua fondazione il partito aveva dichiarato di voler superare per aprirsi al futuro. E ci arriva a pezzi e non invece come avrebbe dovuto arrivarci un partito unito. Non è infatti il Pd nel suo insieme che entra nel Pse per la prima volta, ma solo quella parte di esso che finora al Pse non aveva ancora aderito. Ad entrare nel Pse sono le componenti non diessine che “finalmente” si accodano ai Ds che, sotto la guida di D’Alema nel Pse ci sono da sempre.
Dunque unito in Italia e diviso in Europa?
Non possiamo dimenticare che, unito in Italia, il Pd continuava infatti ad essere diviso in Europa. Pur uniti nell’unico gruppo parlamentare socialista (e democratico), quanto all’appartenenza partitica europea, i parlamentari che dall’Italia erano partiti eletti nelle liste dello stesso partito, avevano a Bruxelles tre diverse qualifiche. Una parte, la maggioranza diessina, apparteneva infatti da sempre al Partito Socialista Europeo oltre che al Gruppo Socialista che del Partito era la proiezione parlamentare, e vi apparteneva in continuità con la precedente affiliazione di partito in Italia e in Europa. Una seconda parte sedeva invece solo nel Gruppo parlamentare socialista, ma invece apparteneva (assieme ad altri che a Bruxelles sedevano tra i lib-dem dell’ALDE) a quel precario Partito Democratico Europeo che era stato promosso da Bayrou e Rutelli, con la Presidenza onoraria di Prodi, come incontro tra “i Democratici”, prima collocati tra i liberaldemocratici dell’Eldr, e i Ppi che in precedenza avevano fatto parte del Ppe. Altri infine erano incaricati di rappresentare il Pd, e niente altro che il Pd, per poter assolvere alle funzioni unitarie della componente italiana del Gruppo Socialista.
Una costruzione barocca?
Nell’immediato era servita per consentire agli esponenti diessini e in particolare al loro “leader Massimo” per continuare a ricoprire le cariche rivestite in precedenza a livello internazionale tra i socialisti, e, nel caso di D’Alema, alla guida della Feps, la federazione dei pensatoi progressisti, in rappresentanza della Fondazione Italiani Europei proposta nei fatti in Italia e all’estero come unico centro di studi del partito italiano all’insegna (si veda al riguardo il sito del Pd) del “qui lo dico, qui lo nego”, e quindi del “come puoi negarlo se non l’ho detto”. Senza questa architettura non si sarebbe infatti riusciti a spiegare a che titolo dirigenti nazionali del Pd sedessero a livello internazionale in organi di partiti, ai quali il Pd non aderiva o, come minimo, non aveva ancora aderito.
Qual è il passo che invece andava fatto?
La natura nuova del Partito avrebbe infatti richiesto che fino a quando il Pd, come Partito nuovo, non avesse deciso della sua collocazione internazionale i dirigenti dismettessero le responsabilità prima ricoperte in rappresentanza dei partiti passati, per poi, nel caso, approdare tutti assieme nel partito che assieme avrebbero scelto. D’Alema sarebbe dovuto uscire dal Pse esattamente come Rutelli dal Pde. Si preferì invece mantenere lo status quo per consentire a D’Alema & Co di restare nel Pse evitandosi di dover uscire di casa, visto che in quella casa si era già deciso di tornare. In cambio ci si guardò bene dal chiedere a Rutelli, co-presidente del Pde e al tesoriere Lusi, di lasciare le loro cariche nel Pde, perché la permanenza degli uni era appunto funzionale alla permanenza degli altri. E questo avvenne nel Parlamento Europeo esattamente come in tutti gli altri consessi internazionali, dalla Assemblea Parlamentare della Nato a quella del Consiglio di Europa, nelle quali i rappresentanti del Pd hanno continuato in tutti questi infiniti sette anni ad approdare divisi dopo che dall’Italia erano partiti uniti.
Questo per il tardi. Ma perché male?
Male perché questi sette anni infiniti sono stati consumati come si consuma il brodo per abituare il partito a un copione già scritto come un esito inevitabile. Nonostante il punto sia stato tenuto all’ordine del giorno anche troppo a lungo, su di esso non si è ma aperto un vero confronto e meno che mai è stato aperto un confronto col partito europeo. Non capendo in che cosa consistesse la nostra novità, non si capiva quale novità avremmo potuto chiedere o offrire agli altri. Ecco perché si è preferito ridurre alla sua dimensione organizzativa e procedurale una decisione che all’interno ieri è stata chiamata storica e all’esterno salutata come definitiva scelta del campo della sinistra. Ecco perché la decisione è apparsa scontata, e sancita dal solito voto, unanime e allo stesso leggero, al quale le assemblee Pd ci hanno purtroppo abituato. E’ così accaduto che la decisione di ieri e l’approdo di oggi si è ridotto a una questione di nomi. Come se in politica i nomi fossero parole come altre e non invece l’unico modo per dire agli altri chi siamo, e da dove veniamo, anche se, purtroppo, non sempre dove stiamo andando.
C’è il rischio che la foga renziana di accreditarsi in Europa possa svilire il senso più ampio dell’operazione democratica “ulivista”?
In questa vicenda Renzi c’entra poco. Guidato dall’ottimismo del suo volontarismo, ha preferito chiudere con un passato che gli è apparso concluso ed aprire al futuro sperando che la scelta di ieri “più che un punto di arrivo” possa essere “un punto di partenza”. Peccato che il renziano Richetti abbia letto quella che sulla bocca di Renzi sembrava una sfida, come “la fine di un’ambizione”. Non vorrei proprio che arrivati alla fine di un viaggio guidato dal desiderio di una casa più grande e più nuova troppi tra iscritti e elettori pensassero di essere finiti in una casa più piccola e più vecchia e comunque con un nome certo antico e glorioso ma ad essi estraneo e da essi subito. Non vorrei che, privati dell’Ulivo democratico, cogliessimo della Rosa socialista soltanto le spine, e, perduta per strada la novità della nostra “Canzone popolare”, ci ritrovassimo muti, senza sentire né condividere, l’antico calore del Canto dell’Internazionale.
Lei che linea avrebbe seguito?
Di certo l’assetto attuale non era ulteriormente conservabile. Difficile da raccontare e perfino da ricordare. Bisognava perciò passare a una posizione che rivendicasse la nostra novità e perciò la nostra autonomia articolata su quattro punti. Partecipazione al gruppo di tutti i deputati Pd da indipendenti; contemporanea uscita di tutti dai partiti precedenti; apertura di un confronto col Pse da posizioni autonome; e nelle prossime elezioni sostegno della candidatura di Schulz alla elezione a presidente della Commissione Ue.
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