La Libia è una priorità della politica estera italiana. A sostenerlo è Enzo Amendola, capogruppo del Pd in commissione esteri della Camera, che in una conversazione con Formiche.net spiega i prossimi passi del nostro Paese nella ricostruzione di Tripoli, alla vigilia della Conferenza internazionale preparata dalla Farnesina e dal neo ministro Federica Mogherini che – se non sarà annullata per un possibile concomitante vertice a Bruxelles sulla crisi ucraina -, vedrà a Roma il Segretario di Stato americano John Kerry.
Onorevole, com’è la situazione oggi in Libia?
Non è un Paese in pace, bensì diviso da lotte interne tra varie fazioni. L’assetto tribale della società ha prodotto, nel vuoto del dopo Gheddafi, una sorta di dissoluzione del Paese, con gruppi diversi che hanno il controllo su zone diverse e in feroce contrapposizione.
Quali sono le sue aspettative e quelle del Governo – in particolar modo delle titolari di difesa ed esteri, Roberta Pinotti e Federica Mogherini – per la Conferenza internazionale di domani a Roma?
Il nostro Paese, anche in ragione del suo passato coloniale, ha avuto dal G8 il compito di guidare il gruppo di contatto con Tripoli. Certo, in queste ore l’attenzione internazionale è concentrata sulla crisi ucraina, ma per la vocazione culturale e geopolitica dell’Italia, la Libia è una priorità.
In che modo questa conferenza, che segue la visita del presidente del Consiglio in Tunisia, può contribuire a un disegno più omogeneo per rilanciare il ruolo dell’Italia e dell’Europa nel Mediterraneo?
Tripoli è fondamentale non solo per la stabilizzazione dell’area, ma anche per i rapporti tra Unione europea e Africa. In questo senso il referente naturale di Bruxelles nel Mare nostrum – e non solo in Libia – non può essere che l’Italia.
Matteo Renzi ha fatto bene a visitare la Tunisia perché una delle ambizioni italiane nel semestre europea a nostra guida è quella di portare l’Unione a girare lo sguardo proprio verso il Mediterraneo, un’area in cui come europei siamo stati o poco attenti, o protagonisti di errori clamorosi, come quello in Libia o nelle delicate transizioni in Paesi come l’Egitto. C’è stata un’assenza completa di partenariato da parte dell’Unione europea. E auspico che, anche col contributo del nostro Paese, Bruxelles possa essere protagonista di nuova stagione meno retorica e più concreta.
Che contributo possono dare il nostro Paese e la comunità internazionale nella ricostruzione della Libia?
Credo che bisogni concentrarsi su due aspetti. Da un lato la sicurezza è prioritaria. Noi formeremo le forze di polizia e dell’esercito libici, che avranno il compito fondamentale di riportare l’ordine (anche grazie al supporto della nostra intelligence), soprattutto dopo la situazione lasciata dalla guerra civile. A sud del Paese c’è un territorio messo in ginocchio dal jihadismo e dalla gestione di traffici da parte di tratte criminali. E io sottolineo anche il bisogno di pensare geostrategicamente al ruolo centrale che può avere la Base di Sigonella insieme agli alleati europei e Usa ( e quindi della nato) per la pacificazione.
Il secondo aspetto è invece quello politico-istituzionale. Sia prima sia dopo Gheddafi, la Libia non ha mai conosciuto istituzioni stabili slegate dal tribalismo. Per questo serve un grosso lavoro di cooperazione di national building che crei un’infrastruttura civile. Un impegno che costerà molto in termini di tempo e investimenti e che per questo deve vedere tutti protagonisti.
La Libia rimane un mercato importante per le imprese italiane, che sono presenti sia con grandi realtà sia con Pmi, che però abbandonano il Paese. Come proteggerle?
Tocca un aspetto cruciale. Oggi metà delle fonti petrolifere sono bloccate e condizionate dalla corruzione, in un Paese i cui la nostra Eni recita un ruolo importante. Ma ci sono anche aziende italiane in altri settori: penso alle infrastrutture, ad esempio, ma anche ad altre realtà. Senza contare le potenzialità di crescita. È anche per questo che bisogna mettere in sicurezza la Libia e consentire che gli scambi commerciali tornino floridi e anzi si rafforzino. La prosperità del Paese, alla quale le nostre imprese possono contribuire, è una condizione essenziale per lo sviluppo di una sana democrazia.