Il progetto di interventi fiscali e sociali presentato da Matteo Renzi alimenta le valutazioni più disparate. Per i più entusiasti è l’inizio di una svolta storica verso le riforme di sistema e il programma più progressista che si potesse immaginare. Per i più prudenti si tratta di timidi segnali nella direzione giusta privi del respiro radicale per promuovere una scossa all’economia.
Per altri osservatori rappresenta un’abile operazione di marketing che non fornisce coperture finanziarie pur di elargire poche risorse in più a una fascia limitata di cittadini. Studiata a tavolino per un ritorno di consenso nel voto europeo di fine maggio a favore del Partito democratico uscito traballante dal dibattito sulla riforma elettorale. A questo orizzonte critico aderisce Rino Formica, ministro delle Finanze negli anni Ottanta e figura di spicco nella storia del Partito Socialista Italiano soprattutto durante la segreteria di Bettino Craxi.
Come giudica il piano del governo sul cuneo fiscale?
Renzi ha presentato annunci e non provvedimenti concretamente giudicabili. Gli annunci possono essere compiuti da persone deboli, e in tal caso restano desideri, o da figure forti che possono farli rispettare perché sono temibili. L’Italia vive in un duplice vincolo: il rispetto delle regole di bilancio dei Trattati europei da cui si può uscire soltanto se la solidarietà comunitaria permette politiche più adatte al nostro Paese, e l’attenzione ai mercati finanziari globali. Tutte le strategie di sviluppo richiedono pertanto il benestare dell’Ue. E al riguardo il ministro serio e competente dell’Economia ha commesso una leggerezza.
Quale?
Non ha spiegato se gli annunci del premier erano stato sottoposti e approvati preventivamente a Bruxelles, come è doveroso per tutte le nazioni soggette a sorveglianza. Se l’Unione Europea riterrà che le misure promesse da Palazzo Chigi non sono adeguate e prive di coperture credibili, Renzi esce dalla Nato e dichiara guerra all’Ue? Magari affermando che la volontà dell’esecutivo è stata bloccata dalle istituzioni comunitarie? E tutto ciò alla vigilia di una campagna elettorale in cui monta un’ostilità senza via di uscita verso l’Unione?
Non c’è nulla di convincente nel merito?
La redistribuzione del peso fiscale è un tema interessante su cui discutere. Gli interventi su scuole e edilizia possono essere corretti. Restituire 80 euro al mese per una parte rilevante della popolazione è meglio di niente. Ma bisogna capire se l’annuncio del premier prefiguri un orizzonte rivoluzionario. La conferenza stampa di due giorni fa era un fatto squisitamente politico, un proclama di ipotesi politica.
Avrebbe preferito un intervento più incisivo sull’IRAP?
Il vero problema, per un Paese sotto sorveglianza dei mercati internazionali per il debito sovrano e dell’Unione Europea per il rispetto dei vincoli comunitari non è il derby tra IRPEF e IRAP.
Entro luglio però verranno pagati i debiti della pubblica amministrazione.
È da chiarire il ruolo che eserciterà Cassa depositi e prestiti, pur sempre un’istituzione pubblica, per le coperture finanziarie dell’operazione. Che dovrà avere il placet dell’Ue. E dal 2010 il nostro Paese ha collezionato in sede comunitaria una sfilza di reprimende che hanno fatto naufragare nell’ordine Silvio Berlusconi, Mario Monti, Enrico Letta. La politica degli annunci si può fare quando l’Italia ha “la pancia piena”.
È soddisfatto dal progetto di riforma sul lavoro e sugli ammortizzatori sociali?
In questo caso l’annuncio del capo del governo concerne una legge-delega, che presuppone un anno di tempo per entrare in vigore.
Ritiene che l’intervento fiscale promesso dal premier abbia l’obiettivo di evitare un tracollo del PD alle Europee di maggio?
Forse. Nel proiettare gli effetti dei provvedimenti economici alla vigilia del voto di maggio Renzi gioca d’azzardo. Se l’Ue gli darà disco verde potrà giocare una carta elettorale. Altrimenti avrà portato acqua al mulino di Beppe Grillo. E i governi che agiscono in questo modo non rivelano grande sensibilità democratica.
Non vede un progetto lungimirante di riforme strutturali nell’azione del premier?
Trovo difficile che gli esecutivi concepiscano e realizzino interventi di ampio respiro se le forze politiche egemoni nell’ultimo ventennio non ne hanno maturato la consapevolezza.
Renzi potrà sfidare l’austerità europea?
Ho una lunga esperienza di “docce scozzesi” nella politica italiana a livello comunitario, e per questo motivo sono divenuto come San Tommaso. Ciò che è avvenuto dal 1994 in poi accresce la diffidenza dell’Ue nei nostri confronti. E operare con frettolosità e imprudenza come ha fatto il segretario del Pd non è la strada migliore.
Lei ha osservato sul Foglio che la radicale riforma del Senato è eversiva. Non è una stroncatura esagerata?
La Costituzione repubblicana non è intoccabile. E ritengo meriti di essere modificata. Ma per i mutamenti profondi devono essere ancor più rispettate le regole di revisione. Alla luce del passaggio da meccanismi elettorali proporzionali a sistemi manipolativi della rappresentanza, è necessario un consenso molto elevato e la previsione di referendum confermativi con un considerevole quorum popolare per sancire i cambiamenti istituzionali. Con le riforme prospettate da Renzi si sceglie una scorciatoia pericolosa.
Lo stesso ragionamento vale per la legge elettorale approvata a Montecitorio?
Senza dubbio. Peraltro è emerso un curioso paradosso. La riforma del meccanismo di voto è stata promossa sulla presunzione della soppressione del Senato. Ma i più alti esponenti del Pd hanno affermato che essa deve essere cambiata proprio a Palazzo Madama. Riconosciuto come necessaria Camera di ripensamento. A riprova che oggi una sola Camera non riesce a produrre leggi corrette, costituzionali e definitive.
Il Pd come esce dalla travagliata approvazione dell’Italicum?
Il Partito democratico ha un suo peccato originale: la fusione di Margherita e Ds che non è riuscita sul piano culturale e politico. Una carenza destabilizzante per se stesso e per l’intero sistema politico. Tuttavia alla fine la politica farà prevalere la razionalità, rispondendo alla verità di leggi matematiche. Per cui 2+2 fa 4 e non 5, 6 o 7 come vuol far credere il premier con i suoi annunci.