Matteo Renzi cerca l’avallo europeo per sostenere le misure di risanamento e rilancio dell’economia italiana approvate mercoledì scorso in Consiglio dei ministri e lanciate subito dopo in una conferenza stampa. Per ottenerlo, il premier domani sarà a Parigi per incontrare il presidente François Hollande, mentre lunedì volerà a Berlino per il vertice intergovernativo italo tedesco dove si confronterà con la cancelliera Angela Merkel.
Una cura choc, quella annunciata del presidente del Consiglio, il cui intervento più importante è il taglio delle tasse: 10 miliardi che andranno a 10 milioni di italiani.
Per ora sia Bruxelles sia Francia e Germania non chiudono le porte, ma attendono che Renzi illustri nel dettaglio le sue proposte.
Un progetto ambizioso, ma che lo storico ed economista Giulio Sapelli (nella foto) in una conversazione con Formiche.net definisce possibile.
Professore, quali sono gli obiettivi degli incontri di Matteo Renzi con Angela Merkel e François Hollande?
Il presidente del Consiglio vuole rinegoziare i parametri europei dell’Italia e sa bene che non sarà possibile se non confrontandosi prima con i tedeschi. Credo che abbia saggiamente archiviato il progetto di porsi alla testa di un fronte di Paesi euro-scontenti, non perché non ve ne siano, ma perché ogni nazione persegue il proprio interesse, che è diverso da quello dell’Italia. Questa divergenza di obiettivi, e quindi di strategie, è emersa nuovamente con forza durante la crisi ucraina.
Crede che il premier ce la farà a convincere Berlino e Bruxelles?
Penso di sì, per tre ragioni principali. In primo luogo anche i tedeschi, anche se non lo dicono apertamente a livello governativo, iniziano a preoccuparsi del pericolo della deflazione. Lo testimonia il fatto che nei giorni scorsi alcuni think tank e istituti di ricerca teutonici, come Diw, abbiano manifestato l’esigenza di ricorrere a una Bce “stile Fed”.
Secondo, ci sono a breve le elezioni europee, e a nessuno, men che meno alla Germania, fa comodo inasprire i toni di uno scontro tra Nord e Sud Europa che rischia di costare caro all’intero processo di integrazione comunitaria, sia economica sia politica.
Terzo, infine, a pesare molto sarà anche la fortissima determinazione americana, che ha lanciato diversi segnali in cui chiede all’Europa una politica espansiva per sostenere la ripresa. Questi tre elementi, se combinati, possono invertire la rotta europea.
Quest’ultimo aspetto rilancia la tesi che Renzi sia molto vicino a Washington.
Credo sia sbagliato, come hanno fatto alcuni, definirlo eterodiretto dagli Usa, anche perché alcune cose dette o che potrebbero profilarsi non sono perfettamente in linea con i desiderata d’oltreoceano. Vero è, a mio avviso, che la Casa Bianca aveva due cavalli su cui puntare, Beppe Grillo e Matteo Renzi, entrambi visti di buon occhio per la loro carica anti-establishment. Tra i due penso abbiano preferito il neo premier, perché più realista e pragmatico.
Cosa potranno chiedere gli Usa a Renzi?
Un impegno forte per allentare l’austerità che imbriglia l’economia europea, e, durante il semestre a guida italiana, di essere l’ariete per realizzare la Transatlantic Trade and Investment Partnership, Ttip, l’area di libero scambio commerciale tra Stati Uniti ed Europa che può essere il vero volano per lo sviluppo dei prossimi anni. Washington non ha interlocutori forti nel Vecchio Continente, per cui si muove di volta in volta cercando le sponde che gli sembrano più ragionevoli e dialoganti.
Descrivendo i piani futuri del premier, sul Corriere della Sera di oggi Maria Teresa Meli individua nell’alta burocrazia il vero freno ai progetti di Palazzo Chigi. Condivide questi timori?
No, perché credo che per evitare questi grattacapi Renzi si sia circondato delle persone giuste. Come Graziano Delrio, persona capace, che lo aiuterà moltissimo nel ruolo di sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Ma penso soprattutto a Mauro Bonaretti, ex direttore generale del Comune di Reggio Emilia, molto vicino allo stesso Delrio, che era suo capo di gabinetto al ministero degli Affari regionali e che ora si trova ad essere segretario generale di Palazzo Chigi. Conosce benissimo la macchina burocratica degli enti locali, non faticherà particolarmente con quella dello Stato. E poi ad aiutare l’intero processo c’è il modello adottato dal premier, anche in questo molto nordamericano, che affida al potere esecutivo la decisione finale sulla spesa. Questo vuol dire ridimensionare fortemente il ruolo della Ragioneria Generale. Qualcosa che si può fare solo con il suo approccio spavaldo.
Ma i nemici di Renzi, e se n’è fatti molti, resteranno a guardare?
Certo che no, proveranno a impallinarlo. Anzi, già ci provano con la litania: non ci sono coperture. Un mantra che ripete anche parte del Pd, forse il suo avversario più temibile. Ma il fulcro della strategia del premier è da un lato sfruttare gli spazi europei per ottenere sconti da Bruxelles, dall’altro governare con anticipi e meccanismi contabili, un po’ come fece Carlo Azeglio Ciampi. Un mix che può funzionare.
A proposito di provvedimenti apparentemente senza coperture, come giudica l’annunciato taglio di Irpef e Irap?
Lo valuto in maniera fortemente positiva, ma con una grave pecca: non aver incluso anche i pensionati. So che così la platea si sarebbe allargata di molto, ma l’Italia è un Paese di anziani e quindi il provvedimento è per forza di cose poco equo. E poi sono loro a votare Renzi, mica i giovani, che preferiscono disertare le urne. Quindi è stata una manovra buona, ma anche autolesionista. In futuro il presidente del Consiglio dovrebbe ascoltare maggiormente le parti sociali. Positivo anche essere riuscito a includere, seppur parzialmente, le richieste di Confindustria, che sull’Irap si era fatta sentire con Squinzi.
Tra i passi annunciati anche quello delle privatizzazioni, a partire da Poste ed Enac. Che ne pensa?
È fondamentale che Renzi comprenda che il debito pubblico non può essere abbattuto con le privatizzazioni, se queste non sono accompagnate da una seria strategia industriale. Si tratterebbe solo di svendite. Vorrei ricordare che forse siamo stati il Paese che dal punto di vista della massa finanziaria ha fatto le privatizzazioni più grandi della storia, ma non sono servite a diminuire per niente il nostro fardello. Veda invece quello che accade in Francia: da un lato si prova a dismettere, ma dall’altro si sta provando a costituire un’impresa di Stato che giri il mondo alla ricerca di terre rare da vendere poi alle Pmi transalpine a prezzi competitivi. Questa è una politica di sistema che anche noi dovremmo perseguire.