Finalmente una buona notizia dalla sponda Sud del Mediterraneo. Nell’Assemblea Nazionale Costituzionale tunisina è stato trovato ormai da un mese un compromesso tra i vertici fra il partito islamico moderato Ennahda e il principale partito laico di opposizione, Nidaa Tounes. Esso ha consentito l’approvazione a larga maggioranza di una buona Costituzione, che faciliterà la stabilità della Tunisia e i suoi primi passi verso la democrazia. Il merito di aver trovato un compromesso va ai leader dei due partiti, Ghannouchi e Ebbensi, entrambi consapevoli che l’inevitabile alternativa a un compromesso sarebbero stati l’aumento della polarizzazione politica, la violenza e forse una guerra civile. Lo sforzo maggiore è stato fatto da Ennatha, partito in cui esiste una dicotomia fra i vertici, più pragmatici e la base più radicale, che ha accettato la separazione fra la religione e la politica e fra diritti individuali e religiosi.
IL MODELLO TUNISINO
La Costituzione tunisina ha un’importanza, che trascende il caso tunisino. Potrebbe costituire un modello per tutti i Paesi della “primavera araba”. Il condizionale è d’obbligo. La Costituzione egiziana non realizza tale separazione. Il partito islamico ha fatto consistenti concessioni all’opposizione secolare: protezione dei diritti delle donne; libertà di espressione; riconoscimento dell’Islam come fatto sostanzialmente individuale, anche se viene riconosciuto – come d’altronde è in Italia il Cattolicesimo – religione dello Stato, parte costituente dell’identità nazionale tunisina; e soprattutto messa al bando del Takfir – cioè dell’accusa di apostasia – utilizzato dagli islamisti per giustificare l’assassinio dei loro avversari, ma che nell’Islam tradizionale costituisce un principio teologico.
I FATTORI DELLA SOLUZIONE
Vari fattori hanno facilitato tale pragmatica soluzione: l’impatto che ha avuto la presa del potere da parte dei militari in Egitto e la repressione della Fratellanza Musulmana, di cui l’Ennahda tunisina è un’emanazione e che ha convinto i suoi dirigenti del rischio di fare la stessa fine; il perdurante caos in Libia; il timore di una radicalizzazione interna, con possibile intervento dell’Algeria; gli attentati terroristici specie nella regione montagnosa a Nordovest del Paese, repressi dall’esercito tunisino con l’aiuto di quello algerino; l’elevato numero di tunisini che sono andati a combattere in Siria contro Assad e che, tornando a casa, potrebbero destabilizzare il Paese; l’assassinio di due importanti esponenti dell’opposizione e le accuse di apostasia contro i membri laici dell’Assemblea Costituente; la perdurante crisi economica e il pericolo di sommosse sociali; il fatto che l’esercito tunisino, a differenza di quello egiziano, non è politicizzato né è impelagato negli affari; e così via. Ha giovato al compromesso anche la sorpresa dei movimenti secolari quando Ennahda, partito con una forte maggioranza relativa, ha mantenuto la promessa di lasciare il potere prima dell’approvazione della nuova Costituzione a un governo laico, di tecnocrati indipendenti. Invece di perdere tempo in dispute ideologiche, tutti sperano che possa risolvere la drammatica situazione economica del Paese. Non era mai capitato. Nei Paesi islamici chi prende il potere con la forza o con le elezioni non lo cede a nessuno. Dà luogo a un “regime piglia tutto”, che esclude l’opposizione.
UN SUCCESSO APPREZZATO
Insomma un successo notevole. Le congratulazioni dell’Occidente ai politici tunisini sono state molte. Esse però non risolvono i problemi economici. Dovrebbero essere subito accompagnate da sostanziosi aiuti economici, concentrando sulla Tunisia il sostegno dell’UE. Abbiamo tutto l’interesse non solo alla stabilizzazione della Tunisia, ma anche che l’esempio tunisino influisca sugli altri Paesi della “primavera”. In molti, essa rischia di trasformarsi in una lunga “guerra dei Trent’Anni”, combattuta ai confini dell’Europa. L’instabilità politica ed economica e la scarsa efficienza delle forze di sicurezza costituiscono terreno fertile per la criminalità organizzata e per il terrorismo. Impediscono la pace sociale e lo sviluppo economico. Solo essi potrebbero portare a una stabilizzazione. Tutti i Paesi dell’Africa Bianca registrano un elevato tasso di disoccupazione, che stimola il radicalismo e l’emigrazione verso l’Europa. Non permette di trasformarli in un filtro che freni le ondate immigratorie dall’Africa Subsahariana, che conosce un’alta crescita demografica, ma non i tassi di sviluppo dell’Africa Orientale. Pone poi a rischio i flussi di gas e di petrolio dall’Algeria, indispensabili come non mai dopo la crisi Ucraina. Una loro riduzione potrebbe compromettere la sicurezza energetica dell’Europa e rendere impossibile la riduzione della dipendenza dalla Russia.
L’EVOLUZIONE DEL RISVEGLIO ARABO
Quanto avvenuto in Tunisia stimola la riflessione sulle prospettive di evoluzione di quel grandioso fenomeno che è il “risveglio arabo”. Iniziato in Tunisia, potrebbe trovare una un’accelerazione proprio da quanto avvenuto in quel Paese. La radicalizzazione e lo scontro religioso non costituiscono novità nella storia dei Paesi in cui la convivenza di gruppi religiosi diversi può all’improvviso trasformarsi in violenza confessionale. La contrapposizione fra sunniti e sciiti o fra Salafiti, Fratelli Musulmani e Sufi, diventa violenta solo in Stati deboli. In quelli forti, i radicali violenti finiscono in carcere. Le dispute fra i vari gruppi e sette sono religiose solo in superficie. Vengono manipolate da demagoghi, per mobilitare le masse, ottenerne il sostegno e reclutare adepti per la conquista del potere, dell’influenza e della ricchezza. Ogni scontro limitato trova nell’Islam, soprattutto in quello arabo, condizioni quasi strutturali di escalation. Le sole elezioni – a cui l’Occidente attribuisce tanta importanza – non portano né stabilità né democrazia. La competizione elettorale, in mancanza di solide istituzioni che proteggano le minoranze, è di per sé divisivo. Ogni processo elettorale attiva la contrapposizione fra i vari partiti politici, in particolare fra quelli secolari e quelli islamici, a loro volta divisi in fazioni. Il vincitore tende a escludere il vinto dal potere, inducendolo a ricorrere alla violenza per sopravvivere. Quasi impraticabile è quindi ogni compromesso. Non rientra nei valori etico-politici diffusi nell’Islam ammettere che chi perde un’elezione possa vincere quella successiva.
PRIMA GLI INTERESSI NAZIONALI
Per fortuna, in Tunisia è avvenuto diversamente. Il partito Ennahda, per tranquillizzare l’opposizione, si era alleato nel governo con due partiti secolari non con quelli salafiti. Aveva poi promesso di cedere il potere a un governo di transizione. Nessuno ci credeva, specie dopo l’esperienza egiziana dei Fratelli Musulmani che avevano cercato con il presidente Morsi di monopolizzare tutto il potere. Con grande sorpresa dei partiti secolari, ha però mantenuto la parola data, dimostrando di anteporre gli interessi nazionali a quelli del partito. Ciò ha Penso che è stato alla base dell’intesa nell’Assemblea Costituente. Ha contribuito a far accettare i compromessi concordati al vertice dei partiti islamici e secolari.
UN COMPROMESSO CONTAGIOSO?
C’è da augurarsi che tale capacità di compromesso emerga in altri Paesi. Occorre però essere cauti. Il compromesso in Tunisia è derivato dalle condizioni particolari del Paese, omogeneo etnicamente, con buone istituzioni, con una forte classe media e con un livello d’istruzione diffuso, superiore a quella degli altri Stati arabi. Per di più la Tunisia non ha una rendita petrolifera. Ciò impone a qualsiasi governo di rispondere agli elettori dell’uso dei fondi pubblici e di creare le condizioni per essere sostenuto dall’Europa. Se quest’ultima non lo facesse, commetterebbe un tragico errore. La chiave della transizione dei Paesi della “primavera araba” verso nuovi, stabili assetti resta l’economia.