C’è chi è corso subito a dire, che in fondo il diritto di autodeterminazione di un popolo va rispettato; come se il referendum votato plebiscitariamente (circa il 95% di sì) domenica 16 marzo, con cui la Crimea ha scelto l’annessione alla Russia, fosse davvero un gesto democratico. Come, appunto, se i soldati fuori dai seggi, i carri armati lungo le strade, l’invasione silenziosa russa accompagnata dalla propaganda urlata, la decisione delle urne armata solo da una delle parti coinvolte (la Crimea), la mancanza di osservatori internazionali, i tempi immediati che hanno portato alle urne una scelta già presa da governo e parlamento; insomma come se tutto questo fosse anche lontanamente democrazia rispettabile, come se il sostegno ottenuto da Putin non fosse neanche un po’ conseguenza di quell’atto prepotente iniziato meno di un mese fa.
Resta il fatto che a quanto pare, sebbene Stati Uniti, G7 e UE continueranno a non riconoscere il risultato delle urne, la Russia e la Crimea procederanno a stabilire tempi e modi per la formale annessione. E intanto a Simferopoli il parlamento ha approvato l’adozione del rublo russo come moneta ufficiale, e ha fatto sapere che dal 30 marzo sposterà le lancette degli orologi sul Mosca Standard Time, il fuso di Mosca.
La Casa Bianca ha definito le azioni russe «pericolose e destabilizzanti» e ha diffuso nuove sanzioni – per lo più indirizzate ad alti funzionari russi e ucraini che hanno favorito la crisi – altrettanto hanno deciso i 28 ministri degli Esteri dell’Unione Europea dopo un incontro a Bruxelles (il primo a comunicarle è stato il ministro lituano Linas Linkevicius via Twitter).
Qualche giorno fa il Segretario di Stato John Kerry aveva parlato della possibilità di «passi seri» contro la Russia; a quelle parole sono seguite altre del Capo di stato maggiore congiunto delle Forze Armate americane – generale Dempsey – che aveva addirittura insinuato una «risposta militare».
Tuttavia su quello che succederà non si ha certezza.
A cominciare dalle difficoltà per la Crimea di staccarsi dalla terra ferma ucraina: la dipendenza da Kiev si traduce in termini pratici nelle principali utlities, a cominciare dall’acqua (oltre il 90%) e l’elettricità (80%), per poi continuare con il tanto discusso gas, di cui circa il 65% viene dall’Ucraina. E da Kiev dipendo anche le casse: degli 1,2 miliardi di bilancio, circa il 70% è stanziato per il momento dal governo centrale – circostanza che, a conti fatti, porterebbe la Crimea ad essere più un peso economico che altro, per Mosca.
Ma è la geopolitica a guidare le cose, non i conti, non le economie e non gli eserciti. Sotto questo aspetto risulta comprensibile anche l’incomprensibile scelta dell’invasione. Come scriveva tempo fa sul New Republic la giornalista russo-americana Julia Ioffe rispondendo al perché Putin faceva quello che stava facendo: «Because he can. That’s it, thats’ only you need to know». Quel “perché può farlo” è il punto.
L’isolamento di Mosca è una leva debole. Gli interessi economici dei gruppi occidentali, non troveranno stop da quelle sanzioni, e soprattutto da quelle azioni.
Il rischio è che, come ha sostenuto Immanuel Wallerstein su Al Jazeera, anche l’Occidente si presenti diviso. Prendere da esempio quelle parole con cui Victoria Nuland (assistent secretary di Kerry), in tempi più tranquilli, aveva commentato con un «Fuck the Europians» al telefono con l’ambasciatore americano in Ucraina, il ruolo giocato dall’Europa nella crisi.
L’Ucraina rischia di giocare un ruolo da proxy, per una divisione che non riguarda per niente il suo territorio. Una divisione che gli Stati Uniti temono dai tempi di Rumsfeld, quando si trovarono la “Vecchia Europa” della Francia e della Germania contro sulle scelte in Iraq. In questo si apre una visione geopolitica più ampia, in cui il rischio è lo spostamento della centralità atlantica, verso il Pacifico (con Cina e Usa tutt’altro che in guerr, ma insieme, con Giappone e Corea del Sud), che metterebbe ai margini la Germania e la Russia.
L’ossessione delle Nulands, sostiene Wallerstein, sarebbe proprio un’ipotetica alleanza tra Russia e Germania (e Francia). Un asse geopolitico che sbilancerebbe gli equilibri statunitensi. E non a caso, tra quei ministri UE che hanno ratificato le sanzioni, le alleanze dei tempi di Rumsfeld sono in parte ancora distinguibili – rinfrescando quegli incubi geopolitici -, con i paesi Baltici ed Est europei convinti, anche per le continuità geografiche, nel pugno duro, sostenuto da Polonia e dagli inglesi. Spagna e Portogallo più morbide, e Germania e Italia molto attive sul piano diplomatico, senza cedere chiaramente, ma ferme sull’esigenza di un dialogo – la ministro degli Esteri Mogherini ha dichiarato che «C’è ancora spazio per fermare la crisi, tutti i canali diplomatici sono ancora aperti».