Il breve comunicato diffuso dalla Sala stampa nel primo pomeriggio di oggi, a seguito del lungo (cinquanta minuti) colloquio tra il Papa e Barack Obama, pone innanzitutto l’accento su “alcuni temi attinenti all’attualità internazionale, auspicando per le aree di conflitto il rispetto del diritto umanitario e del diritto internazionale e una soluzione negoziale tra le parti coinvolte”.
E’ questo il primo capitolo affrontato stamane nell’udienza a porte chiuse che ha avuto luogo nel Palazzo apostolico. Uno spazio non indifferente è stato poi riservato alle “questioni di speciale rilevanza per la Chiesa nel Paese (Stati Uniti, ndr), come l’esercizio dei diritti alla libertà religiosa, alla vita e all’obiezione di coscienza nonché il tema della riforma migratoria”. Infine, “è stato espresso il comune impegno nello sradicamento della tratta degli esseri umani nel mondo”.
NON SONO STATI TRALASCIATI I TEMI D’ATTRITO
Un colloquio che dunque ha toccato temi che uniscono le sensibilità degli Stati Uniti e della Santa Sede, senza però tralasciare gli argomenti d’attrito. Non è un caso che nel comunicato sia stato sottolineato il problema dell’esercizio “della libertà religiosa”, tema caro ai vescovi statunitensi che contestano proprio la violazione di tale principio nell’Obamacare, la riforma sanitaria promossa dal presidente democratico. Al termine dell’udienza, il presidente americano si è recato dal segretario di stato, il cardinale Pietro Parolin, per una breve conversazione. Ed è proprio il ruolo di quest’ultimo che sta acquisendo sempre più importanza nella politica d’oltretevere.
IL RUOLO DEL SEGRETARIO DI STATO PAROLIN
Per farsene un’idea, è sufficiente tornare con la memoria al 14 gennaio scorso, quando in Vaticano giunse il segretario di Stato americano, John Kerry, che si fermò a colloquio con Parolin per un’ora e quaranta minuti. Al centro del confronto, la situazione in Siria, la conferenza Ginevra 2, i negoziati (moribondi ormai) tra palestinesi e israeliani. “Diversi argomenti” sul tavolo, spiegò allora il direttore della Sala stampa, padre Federico Lombardi, a cominciare dal Medio oriente. C’era tanto da chiarire, tra Roma e Washington, dopo i momenti di forte tensione dell’estate scorsa, quando il Papa si mise di traverso allo strike sulla Siria. La veglia di preghiera in piazza san Pietro e il digiuno irritarono (e non poco) gli esponenti dell’Amministrazione americana che più propendevano per l’attacco immediato.
IL “PROBLEMA PUTIN”
Soprattutto, non era passato inosservato il “feeling” tra il Pontefice e Vladimir Putin, al quale fu recapitata una lunga lettera con tanto di benedizione finale papale in occasione del summit del G20 organizzato dalla Russia. Anche nell’udienza di gennaio, Parolin e Kerry discussero “le questioni oggetto di dibattito e preoccupazione per i vescovi”, quali ad esempio “la riforma sanitaria” e il “rispetto della libertà religiosa”. Alla luce del comunicato diffuso oggi a margine dell’incontro tra il Papa e Obama, si comprende ancora meglio che Parolin saggiò il terreno con la controparte americana già a gennaio, preparando il terreno per l’udienza odierna. E’ l’ulteriore conferma della fiducia totale che il Papa gesuita ripone nel suo segretario di Stato, esponente di primo livello della gloriosa scuola diplomatica vaticana caduta nel cono d’ombra durante il pontificato ratzingeriano.
LA MOBILITAZIONE DI SETTEMBRE E LA CHIAMATA DI PAROLIN
Fu proprio lo scorso settembre che la mobilitazione della Santa Sede puntò dopo anni nuovamente gli occhi sulla Segreteria di Stato. Il numero uno era ancora Tarcisio Bertone, ma già a fine agosto il Papa aveva annunciato la sostituzione: al posto del canonista salesiano, arrivava un diplomatico di rango, Pietro Parolin. Nunzio in Venezuela ma, soprattutto, gran tessitore delle relazioni sotterranee tra la Santa Sede e la Cina. Era stato lui, il monsignore vicentino cresciuto alla scuola di Casaroli e Sodano, ad aver lavorato alla lettera ai cattolici cinesi firmata nel 2007 da Benedetto XVI. Qualche tempo dopo, il Papa lo consacrò personalmente vescovo e lo inviò a Caracas, dove ancora imperava Hugo Chavez. Una missione per farsi le ossa.