La crisi economica e la stagnazione produttiva italiana è stata provocata dall’avvento dell’euro o risale a storiche carenze che siamo chiamati ad affrontare con coraggio? Ed è pensabile ottenere dall’Ue uno scambio tra riforme e flessibilità nel bilancio? Ruota attorno a questi interrogativi il libro “33 False verità sull’Europa” (Il Mulino), scritto dall’economista Lorenzo Bini Smaghi, tra il 2005 e il 2011 membro del Comitato esecutivo della BCE, visiting scholar all’Università di Harvard e componente del consiglio di amministrazione di Morgan Stanley.
EUROPEISMO VS. POPULISMO
Il pamphlet, concepito e pubblicato alla vigilia di un voto per l’Assemblea di Strasburgo più che mai aperto e ricco di incognite, punta a difendere il progetto di costruzione europea. Lungi dal propugnare una lettura intransigente dei parametri di stabilità, l’opera prospetta la facoltà di rinegoziare il limite del 3 per cento nel rapporto tra deficit e PIL in cambio di precise e radicali innovazioni istituzionali, giuridiche, economico-sociali.
È la strada, spiega Bini Smaghi, più rigorosa e credibile per il nostro paese. Limpida e impegnativa allo stesso tempo. L’unica in grado di smantellare “le menzogne diffuse ad arte dai populismi di ogni colore che giocano la carta dell’abbandono della moneta unica”. E di mettere a nudo le contraddizioni di chi invoca il ricorso a strumenti di gestione condivisa dei debiti sovrani come gli Eurobond, senza la consapevolezza dei vincoli stringenti che essi produrrebbero nella cogestione del passivo di bilancio.
LA RESPONSABILITA’ DEGLI STATI
Nelle prossime elezioni europee l’Italia potrebbe contribuire in modo massiccio a un Parlamento ostile all’Ue, alimentando la sfiducia nelle istituzioni comunitarie, le spinte favorevoli al loro abbandono, l’irrilevanza del nostro paese nello scenario internazionale. Rendere l’Unione Europea il capro espiatorio dei nostri mali atavici, osserva lo studioso, è una strategia autolesionista. Tanto più esecrabile se viene portata avanti dagli esponenti politici che hanno firmato gli accordi a Bruxelles e li hanno ratificati nei rispettivi paesi.
La crisi dell’Europa “è in realtà la crisi degli Stati nazionali, che in un mondo sempre più integrato non riescono più ad agire individualmente in maniera efficace e nel contempo sono riluttanti a trasferire poteri a livelli di governo sovranazionale”. Ma per l’Italia si pone un problema aggiuntivo. A giudizio dell’economista sarebbero necessarie riforme incisive, molto più coraggiose di quelle fin qui viste. Così potremmo conquistare la giusta credibilità – esattamente come fece l’ex Cancelliere tedesco Gerard Schroeder nel 2002-2004 – per ottenere solidarietà e ascolto nei partner europei. A partire dalla possibilità di sforare il tetto del 3 per cento nel rapporto deficit-PIL.
LE RIFORME DELL’UE
Tuttavia a livello comunitario vanno compiuti notevoli passi in avanti. L’ex componente del direttivo della BCE evidenzia la necessità di accelerare il controllo delle istituzioni europee sulle banche nazionali, accettato da paesi come Lussemburgo e Olanda tradizionalmente gelosi della riservatezza nel credito. E auspica una spinta all’integrazione politico-economica grazie alla legittimazione elettorale del presidente della Commissione Ue.
È un percorso laborioso ma possibile: “La federazione democratica statunitense ha impiegato 130 anni per trovare compimento, tra conflitti, crisi, fallimenti di Stati, lacerazioni”. Se non sceglieremo questa strada con spirito innovatore, è la sua convinzione, prevarranno i monopoli di ogni natura. Fonte per la proliferazione dei populismi.
LE IDEE SUL DEBITO E LE PROPOSTE SULL’IRAP
Il pamphlet, di cui Formiche.net ha pubblicato due estratti concernenti il ridimensionamento della portata delle manovre finanziarie per rispettare contenuti e tempi del Fiscal Compact e un progetto di taglio rilevante dell’IRAP per ridurre il costo del lavoro e far ripartire l’economia senza intaccare i salari, ha offerto spunti di riflessione e dibattito politico.
INTESE SORPRENDENTI
La presentazione del libro, promossa dal Mulino e dall’Istituto Affari Internazionali nella Sala conferenze di Montecitorio, ha visto un vivace confronto fra Gennaro Migliore, presidente del gruppo di Sinistra e Libertà alla Camera dei deputati, Michele Boldrin, coordinatore nazionale di Fare per fermare il declino, Sandro Gozi, parlamentare del Partito democratico e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega agli Affari europei. Rappresentanti di tre forze che potrebbero ritrovarsi unite nelle future elezioni politiche attorno alla leadership riformatrice di Matteo Renzi.
Le divergenze culturali, soprattutto tra la visione di SEL legata all’eredità di John Maynard Keynes e la lettura liberista di Fare, non mancano. Ma emergono spunti di consonanza politica nell’ostilità radicale contro i “populismi e l’euro-scetticismo”.
CHI E’ IL VERO NEMICO CHE UNISCE MIGLIORE E BOLDRIN
Fenomeni, rimarca Migliore, che attribuendo all’Unione Europea e alla valuta unica l’origine della crisi economico-sociale del nostro tempo offuscano il conflitto autentico tra lavoro e finanza. E si pongono in un’ottica reazionaria. A suo giudizio la strada da perseguire è un’integrazione federalista in grado di sviluppare più democrazia per la soluzione dei problemi attuali. Un obiettivo rispetto al quale “il progetto messo in campo dal governo presenta elementi interessanti”.
L’analisi del capogruppo di SEL a Montecitorio non assolve le istituzioni comunitarie. A livello europeo “è necessario ridurre le diseguaglianze e la povertà crescente, toccando i santuari delle rendite e promuovendo investimenti pubblici capaci di riattivare la domanda e incentivare la ripresa occupazionale coinvolgendo il capitale privato”. Interventi che potrebbero venire scorporati dal rispetto dei parametri finanziari.
LE TESI BOLDRINIANE
Più radicale rispetto alle riforme da mettere in campo nel nostro Paese è l’analisi dell’economista liberista, Michele Boldrin, a capo del movimento Fare che ha dato vita alle Europee alla lista Alde con Centro democratico di Bruno Tabacci e a Scelta Civica coordinata da Stefania Giannini: “La crisi italiana non risale alla tempesta finanziaria del 2007-2008 ma a decenni fa”. Agli occhi dell’economista padovano le sue ragioni remote vanno ricercate nelle mancate riforme di una realtà scolastico-universitaria che non immette energie produttive e creative nel tessuto produttivo. Risiedono in un regime previdenziale – pari al 14,5 per cento del Prodotto interno lordo italiano, 80 miliardi considerando contributi e tasse – che è di gran lunga “il più oneroso d’Europa e favorisce un furto generazionale intollerabile”.
E si manifestano nel ginepraio di trasferimenti pubblici alle aziende. Una somma di almeno 25 miliardi il cui taglio è rimasto nel cassetto, e la cui eliminazione potrebbe coprire l’abrogazione dell’IRAP. Lo studioso è persuaso che se l’Italia riuscisse a superare tali ritardi come la Germania del 2003-2004, nessuno troverebbe scandaloso l’eventuale sforamento dei vincoli di bilancio comunitari.
RIFORME IN CAMBIO DI FLESSIBILITA’
Realizzare le necessarie innovazioni e ottenere maggiore elasticità nei tempi di rientro del debito da parte dell’Unione Europea. È questa, per Sandro Gozi, la direzione di marcia prefigurata dal Documento economico e finanziario approvato dal governo Renzi: “Un’iniziativa essenziale per mostrare credibilità, e che punta a riformare la pubblica amministrazione, attribuire un ruolo decisionale alle istituzioni repubblicane, restituire tutti i debiti di Stato ed enti locali alle imprese fornitrici, ridurre in forma drastica il costo del lavoro”. Bisogna portare a compimento, in tempi molto più difficili, gli interventi radicali attesi da almeno vent’anni e rinviati dal ceto politico alternatosi al potere in una stagione di crescita economica.
UNA FEDERAZIONE EUROPEA
Ma bisogna farlo, precisa il parlamentare del PD, liberi da complessi di sudditanza verso i partner europei. Perché sul piano comunitario le regole di bilancio possono essere applicate in modo più flessibile. E perché è bene ricostruire un capitale di fiducia reciproca tra popoli e governi dell’Ue. Esigenza che richiede “una riforma democratica delle istituzioni comunitarie in grado di costruire una politica e una dinamica partitica sovranazionale, all’altezza delle sfide economiche”. Soltanto così, rileva l’esponente dell’esecutivo, potremo creare un robusto baluardo contro le turbolenze dei mercati mondiali.