L’editoriale uscito sul Corriere della Sera di Antonio Polito ha il merito indiscutibile di puntare il dito sul dato essenziale presente nella nostra geografia politica. La destra che non cambia, la sinistra che fa la destra, secondo l’adagio utilizzato da Matteo Renzi, non è soltanto espressione di una difficoltà generale ad articolare proposte elettorali che abbiano un minimo di normalità, è anche l’accettazione dell’insostituibilità di alcune coordinate standar tradizionali, in primis quella che distingue ovunque nel mondo il centrodestra dal centrosinistra.
Polito ha ragione che si è creato un vuoto moderato nel preciso momento in cui Berlusconi ha sfasciato il centrodestra, lasciando a Renzi la possibilità di far diventare il centrosinistra una sorta di partito anti-tasse, una specie di aculeo riformatore. Renzi, però, ha torto quando attacca la sinistra imputandogli la colpa di non essere più progressista se rimane immobilista. In realtà, come si sa, la visione della sinistra è legata sempre a due convinzioni profonde: la prima è l’idea del futuro come luogo necessario di ricomposizione dell’ordine sociale nell’eguaglianza e la seconda è la difesa inamovibile dei risultati di progresso che sono stati ottenuti nella storia. Se alla sinistra togli certezza ideologica e conservatorismo progressivo, cosa gli resta?
In tal senso il disegno renziano non è in alcun modo corrispondente a quella tradizione, per cui non può lamentarsene senza fingimento. E’ lui, viceversa, che dovrebbe chiedersi, che cosa ci faccia a capo del Partito Democratico se è un liberale e un riformatore. Ciò gli vale il merito, ma anche la debolezza di voler fare con una base che non lo ama ma lo segue quello che il centrodestra avrebbe dovuto fare e non ha fatto con un leader perfettamente adatto al suo elettorato.
Il nodo vero è che l’Italia ha bisogno ora di un rafforzamento del centrodestra, ossia di un’area popolare che aiuti oggi Renzi a governare e si proponga domani come vera alternativa compatta per tutti gli elettori moderati e liberali del Paese. In fondo, che cosa è successo in pochi mesi: siamo passati sì dal caos della Seconda Repubblica alle anomalie della terza, ma il sistema si è anche avviato verso una giusta razionalizzazione e in una buona direzione.
Già alle prossime elezioni europee sarà possibile votare una lista unitaria, quella del Nuovo Centro Destra e dell’Unione di Centro, che è in possesso potenzialmente del patrimonio genetico e culturale di tutta l’area moderata. Questo genoma non è una persona, un leader unico, ma una serie di valori che sono esattamente gli unici che giustificano le riforme istituzionali avviate e riaffermate in Italia e in Europa.
E’ possibile, infatti, cambiare tutto – la politica, le leggi, i rapporti istituzionali, nonché i vincoli europei e i vertici delle aziende pubbliche, come sta facendo il governo – unicamente se vi è la convinzione consapevole che lo sviluppo di un popolo si fonda sulla vita delle persone e deriva dalla loro volontà: dai rapporti naturali, familiari e di amicizia che si creano in una comunità che vuole essere protagonista culturale ed economica del mondo.
Se c’è questa condivisa percezione di se stessi, allora è possibile defiscalizzare senza distruggere lo Stato e la solidarietà; è possibile liberalizzare senza svendere il Paese, è possibile riaffermare i legittimi interessi nazionali senza sganciarsi dall’Europa e dal Mediterraneo. Se, per contro, manca questa certezza, allora si rischia di finire nel burrone con Renzi o senza Renzi.
Diciamo la verità. Il centrodestra in Italia è vissuto all’ombra di Berlusconi per vent’anni, beneficiando del suo ruolo acchiappa voti e non ha elaborato idee, visioni del mondo, progetti politici. La scissione del NCD nell’autunno scorso ha rimesso in pista la sfida di poter raccogliere i propri elettori attorno ad un progetto popolare e moderato che in precedenza non serviva, semplicemente perché inutile.
E’ giusto dire, dunque, che non c’è più tempo. Ma è più giusto ancora considerare che è adesso il tempo opportuno per ricreare il centrodestra nel nostro Paese, per farlo essere corrispondente ai valori del popolarismo europeo, per farlo crescere, pian piano, sotto forma di valori partecipati e condivisi dagli elettori, senza più cadere nel vortice dei populismi che non sono produttivi di niente.
E’ chiaro che non esiste politica che viva solo di identità, di valori e di cultura. Lo sappiamo tutti. Ma senza punti fermi, a non esistere è, innanzi tutto, proprio la politica. E con essa il consenso necessario per riformare il Paese.