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Quelle lettere che svelano un Andreotti inedito e profondo

“Ero troppo abituato a onori e tappeti rossi. Non ringrazio chi mi ha teso la trappola ma non provo rancore. Nella mia esistenza ho avuto tanto. Che potevo offrire in cambio alla Provvidenza divina? Forse questi anni di sofferenze e calunnie servono a bilanciare un corso di vita felice”. È il passaggio cruciale di una lettera scritta da Giulio Andreotti nel settembre 1995, prima di recarsi a Palermo per partecipare alla prima udienza del processo che lo vedeva sul banco degli imputati per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso.

UNA TESTIMONIANZA PREZIOSA 

Un documento che fa parte di sei epistole inedite redatte dalla personalità politica democratico-cristiana tra il 1978 e il 2005, indirizzate alla moglie Livia, ai figli e ai nipoti, destinate alla pubblicazione post-mortem. E che, a un anno dalla sua scomparsa avvenuta il 6 maggio 2013, la famiglia ha scelto di rendere note.

Apparse oggi sulle pagine di Avvenire, le missive gettano una luce nuova e per molti versi sorprendente sul legame con gli affetti più profondi, sulla genuina religiosità cattolica, sulla proverbiale riservatezza troppo a lungo interpretata come ipocrisia, sul realismo politico mescolato a un’ironia dissacrante tutta capitolina. “Sono in proroga”, affermava Andreotti negli ultimi anni di attività a Palazzo Madama. Ne emerge, rimarca il giornale della Conferenza episcopale italiana, una “figura solare, ricca di umanità e di amore per la povera gente, lontana mille miglia dallo stereotipo dell’uomo di potere cinico e indecifrabile che gli è stato cucito addosso”.

L’INTRECCIO COSTANTE TRA FAMIGLIA E POLITICA 

La pubblicazione delle testimonianze personali inedite dell’esponente della Democrazia cristiana è tanto più preziosa poiché giunge nella fase in cui gli storici, i ricercatori, gli studiosi cominciano a esplorare l’Archivio degli scritti e documenti da lui donati all’Istituto “Luigi Sturzo”: giacimento sterminato di conoscenze sulle luci e le ombra della storia dell’Italia repubblicana.

Il filo conduttore delle lettere, che abbracciano una stagione tra le più intense e travagliate della vita pubblica nazionale, vede intrecciarsi continuamente il richiamo al valore della famiglia, nell’accezione umanistica e cristiana del termine, con la gratitudine verso personaggi nevralgici nella formazione e nell’esperienza politica del sette volte capo del governo: Alcide De Gasperi, Guido Gonella, Giovanni Paolo II.

IL RAPIMENTO DI ALDO MORO

La prima missiva risale al 10 aprile 1978, nel cuore del sequestro di Aldo Moro ad opera delle Brigate rosse. Mentre nella scena pubblica Andreotti si erge ad alfiere della “linea della fermezza” contro ogni apertura di canali di interlocuzione politica con le BR e contro iniziative umanitarie da parte dello Stato finalizzate a garantire la salvezza dell’ostaggio, nella coscienza si fa largo una paura profondamente umana.

“Non avevo mai pensato – spiega l’allora Presidente del Consiglio – di scrivere qualcosa per il mio post mortem. Ma gli avvenimenti delle ultime settimane, dando fragilità alla nostra sicurezza, mi inducono a farlo”. Poi, presagendo le polemiche roventi che avrebbero accompagnato il suo operato in quei 55 giorni, rivendica i tratti distintivi della sua visione politica: “Nella mia vita ho ricoperto ruoli superiori alle mie qualità intellettuali, e mi sono sempre impegnato per la difesa dei più deboli nutrendo un’allergia per le forme di demagogia. Spero di non lasciare dietro di me rancori ed equivoci”.

L’INTERLOCUTORE PRIVILEGIATO DI BERLINGUER?

Nella testimonianza si respira tutta l’atmosfera della stagione dei governi di “solidarietà nazionale” tra DC e Partito comunista. Una fase vide protagonisti Moro, Andreotti e il segretario del PCI Enrico Berlinguer.

Ed è con una rivelazione sorprendente che al quotidiano dei vescovi il cardinale Fiorenzo Angelini, storico amico dell’ex capo del governo, parla di “un rapporto di amicizia costruito sulla stima più che sulle frequentazioni tra il rappresentante democratico-cristiano e l’allora leader di Botteghe Oscure”. A giudizio dell’alto prelato anzi, Andreotti avrebbe giocato il ruolo di sponda privilegiata di Berlinguer nel suo tentativo di modernizzare il PCI per renderlo una forza democratica e di governo.

UN GIURAMENTO SOLENNE

Le altre cinque lettere, comprese tra il 1994 e il 2005, coinvolgono un arco di tempo in cui all’attività di senatore a vita e di direttore del mensile di politica internazionale 30 Giorni l’ex titolare della Farnesina è costretto ad affrontare l’interminabile calvario giudiziario dei processi per associazione mafiosa e per l’assassinio del giornalista Mino Pecorelli.

Considerando il ruolo della fede cattolica nell’orizzonte e nella prassi politica di Andreotti, acquistano grande spessore e suggestione emotiva le parole scritte nella lettera del 25 settembre 1995. Il giorno prima della partenza per Palermo ove stava per iniziare il primo dibattimento sull’accusa di adesione e partecipazione a Cosa Nostra.

Con un vero e proprio “giuramento dinanzi a Dio cui nulla può essere nascosto o manipolato”, l’ex senatore a vita rivendica l’assoluta estraneità e ostilità rispetto al fenomeno mafioso. E, in un crescendo che assume i contorni di un testamento etico-politico, nega ogni responsabilità negli omicidi di Pecorelli e del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Ribadendo ancora una volta come nella primavera 1978 fu compiuto ogni sforzo per salvare Aldo Moro.

UN’OMBRA INQUIETANTE E UNA CONFESSIONE

Al termine della missiva, però, l’orgogliosa rivendicazione dei propri comportamenti istituzionali lascia il campo a un’evocazione inquietante, che richiama la stagione torbida e oscura delle stragi del biennio 1992-1993. “Se – scrive Andreotti – per la lunghezza dei tempi processuali o per un attentato che è da tempo nell’aria io non giungessi vivo all’accertamento della verità, spero si trovi il modo di renderla palese”.

Ma è nell’epistola inviata alla famiglia il 24 settembre 1999, durante l’attesa per il verdetto di primo grado del processo di Perugia, che si può cogliere persino nel linguaggio il complesso rapporto dell’esponente più longevo della prima Repubblica con la verità. Riconoscendo nella forma di una confessione religiosa limiti e debolezze del proprio agire pubblico, egli scrive: “Nella mia vita politica ho fatto qualche sgambetto e non ho frenato la mia ambizione. Se per questo motivo ho arrecato ingiuste amarezze chiedo indulgenza”.



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