“American Dream. Così Marchionne ha salvato la Chrysler e ucciso la Fiat”. È il titolo del libro scritto dal giornalista di Panorama e saggista economico-finanziario Marco Cobianchi. Un volume edito da Chiarelettere che sarà in libreria dal 9 maggio e alimenterà riflessione e dibattito per la lettura critica e sferzante del manager italo-canadese asceso 10 anni fa alla guida del Lingotto.
Ne emerge una figura con poche luci e molte ombre, assai lontana dal profilo di imprenditore coraggioso e duro, libero dagli intrecci con il potere politico, artefice di una felice proiezione internazionale dell’azienda torinese, che la maggior parte della stampa ha costruito nel corso del tempo. Alla vigilia della presentazione del piano industriale 2014-2018 di Fiat Chrysler Automobiles, Formiche.net ne ha parlato con l’autore.
Lei parla di 10 anni di bugie e false promesse di Sergio Marchionne. Perché?
Vi è troppa piaggeria attorno al manager del Lingotto. Fin dal 2004, quando arrivò alla guida dell’azienda, è stato circondato da un alone di infallibilità. E ogni volta che vedo una persona collocata sul piedistallo mi vien voglia di tirarlo giù. Naturalmente con documenti e prove alla mano, mai per partito preso. La Fiat, compresa quella di Marchionne, è sempre stata troppo coccolata da politica, media, banche. Fenomeno intollerabile rispetto a come sono trattate le altre imprese italiane.
Ma non era giusto proiettare Fiat oltre gli angusti e incerti confini europei in un orizzonte globale?
Sì. Ma il punto è un altro. È necessario valutare i costi delle iniziative industriali dell’amministratore delegato del Lingotto. Ricordo che non è Fiat ad aver comprato Chrysler, ma è l’azienda italiana a essere diventata americana. E l’internazionalizzazione si è rivelata un flop totale.
Per quale ragione?
La proiezione globale perseguita da Marchionne era concepita sull’assunto “Apro dove mi pagano per fare automobili”. Prospettiva che ha funzionato nei mercati periferici dell’Est europeo o, in parte, in Brasile. Ma nelle aree più importanti per l’industria automobilistica mondiale la sua strategia è stata sconfitta.
Si riferisce ai tentativi di penetrazione nel mercato cinese?
Lo sbarco di Fiat in Cina è fallito per ben 5 volte con l’attuale management. Oggi Marchionne ci riprova, ma con il marchio Jeep, che è della Chrysler, non con il marchio Fiat. La ritirata dalla Russia è stata addirittura umiliante, mentre in India l’azienda è stata turlupinata dai soci della Tata. Con ricadute molto negative per il nostro Paese.
Teme per la sopravvivenza delle fabbriche situate in Italia?
Nel 2013 Fiat ha perso 911 milioni di euro, Chrysler ne ha guadagnati 1 miliardo e 800 milioni. Non conosco multinazionale in grado di sopportare tali perdite da parte di 5 realtà produttive.
Per il 2018 Marchionne si prefigge l’obiettivo di oltre 6 milioni di auto vendute.
L’ad del Lingotto lo ice da almeno 4-5 anni che raggiungerà i 6 milioni di unità vendute. E ogni volta sposta il termine temporale più avanti. Negli 8 piani industriali presentati in 9 anni non solo ha innalzato l’asticella degli obiettivi, ma ha prospettato traguardi palesemente irraggiungibili.
La sua strategia di rendere più autonoma Alfa Romeo per puntare sul mercato di qualità è stata premiata in Borsa.
Marchionne affermò nel 2010 che entro il 2014 avrebbe venduto 500mila Alfa. Nel 2011 il target era sceso a 400mila, nel 2012 calò a oltre 300mila. Le macchine effettivamente vendute nel 2013 sono state appena 71.500. Riguardo a Maserati, l’altro “gioiello aziendale”, nella stagione scorsa le auto vendute sono state solo 15.400. Come può fare concorrenza a Bmw, Mercedes e Audi, ognuna delle quali vende 1,5 milioni di auto ogni anno?
Fiat ha conquistato però il 100 per cento della proprietà di Chrysler.
Intendiamoci: Marchionne è un genio. Nessuno sarebbe riuscito nella sua impresa: far sopravvivere la Fiat per 10 anni e acquisire Chrysler con denaro statunitense. Un vero miracolo, a fronte di una famiglia Agnelli che nello stesso arco di tempo non ha sborsato un euro per un aumento di capitale. Ma il suo rapporto con il potere politico non è molto diverso da quello della Fiat di Cesare Romiti.
Non vi è differenza tra Marchionne e i protagonisti del “capitalismo assistito e di relazione”?
Pensando allo shock salutare provocato nei rapporti con le organizzazioni sindacali, il manager italo-canadese è un innovatore. Ma le risorse pubbliche e gli aiuti di Stato ricevuti dal Lingotto sotto la sua guida equivalgono a quelli ottenuti dai predecessori. Presentando il piano industriale del 2005 di fronte a una platea di ministri, l’attuale ad pose 4 condizioni minacciando di chiudere le fabbriche nell’eventualità venissero respinte. I politici si sono affrettati a soddisfarle tutte. Anche questo è capitalismo di relazione.