Al termine di una riunione, ieri sera i deputati democratici hanno adottato senza votare, come da richiesta dell’autore, il testo di Gian Piero Scanu che chiede una rimodulazione e un dimezzamento del programma di acquisto degli F-35.
Ciò ha evitato una spaccatura del partito alla vigilia del voto di oggi in Commissione Difesa della Camera. Il testo originale di Scanu, ha però subito delle modifiche, frutto della mediazione del capogruppo Pd alla Camera, Roberto Speranza, che ha proposto di togliere dal documento qualsiasi accenno a moratorie e dimezzamenti di budget, anche se poi è passata la linea dei contrari a proseguire nei termini stabiliti il programma del velivolo di Lockheed Martin.
I RITORNI INDUSTRIALI
Alla luce del documento finale del Pd (qui un estratto), sono molte tuttavia le perplessità sollevate dagli esperti. “Lo schema di accordo – sostiene Scanu – non offre sicure garanzie, dal punto di vista della qualità e del valore, sul piano di ritorni industriali e occupazionali significativi“. Valutazioni che contrastano con i numeri di un rapporto indipendente di PricewaterhouseCoopers, che indica in circa 15,8 miliardi di dollari il ritorno economico complessivo per l’Italia fino al 2035, ovvero una media di 540 milioni di dollari per ogni anno di attività, e in circa 14,6 miliardi di dollari le opportunità per le aziende nazionali coinvolte nel programma. A fare la parte del leone le ali del caccia, prodotte a Cameri da Alenia Aermacchi, con ritorni stimati sui 6,8 miliardi di dollari per tutto il programma F-35.
LA NATURA E I COSTI DEL VELIVOLO
Scanu, si sofferma poi sulla natura del velivolo: “Considerazioni di natura finanziaria, operativa e di politica industriale, spingono a rinnovare la flotta aerea militare su due linee di volo, ovvero con gli F35 e gli Eurofighter, tra loro complementari e in grado di operare in ambiente sia Nato che UE. In questa stessa ottica appare ragionevole, infine, esplorare anche altre soluzioni, meno impegnative dal punto di vista finanziario, per quanto riguarda il rinnovamento degli aerei a decollo verticale“, scrive. Un ragionamento che non convince il mondo militare, chiamato a fare uso pratico e quotidiano dei sistemi d’arma. Per il generale Vincenzo Camporini, già capo di Stato maggiore della Difesa e oggi vicepresidente dell’Istituto Affari Internazionali “sono in molti a sostenere che dovremmo acquistare Eurofighter e non F-35“. Niente di più sbagliato perché: “a) sono due velivoli con caratteristiche diverse, non intercambiabili, il primo serve a difendersi, il secondo ad attaccare; b) Gli F-35 costano, a inizio programma, molto meno che gli Eurofighter al termine della produzione e hanno anche minori costi operativi per ore di volo; c) È vero che gli Eurofighter sono prodotti da un consorzio di quattro Paesi tra i quali c’è anche l’Italia con una quota del 21%. Proprio questo significa che se oggi ne ordinassimo un quantitativo spendendo ad esempio 100 – e gli altri Stati del consorzio non facessero lo stesso in proporzione -, noi avremmo sì un guadagno di 21, ma il restante 79 andrebbe ad altri Paesi“. Con gli F-35 invece, conclude Camporini, “si è sul mercato in modo aperto, per un numero di commesse che potrebbe essere potenzialmente estesissimo. Non mi stupirei di scoprire che alla fine del programma Jsf, facendo i conti, avremmo avuto lavoro per una cifra superiore a quella spesa per acquistare i nostri velivoli“.
LA SCELTA POLITICA
Infine vi è un capitolo politico, che ha a che vedere con i rapporti internazionali e la credibilità del Paese. Nel suo documento Scanu parla di “un fattore di dipendenza operativa da istanze politico-industriali statunitensi“. Un concetto che il generale Leonardo Tricarico, ex capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare, socio fondatore della Fondazione Icsa e presidente del comitato strategico della rivista Airpress, ritiene vada declinato non in termini di sudditanza, ma di collaborazione tra amici ed alleati. “Dal punto di vista nazionale – spiega – tagliare ulteriormente il numero di F-35 sarebbe una scelta masochista e che non gioverebbe affatto all’immagine del nostro capo di Governo. Il Segretario della Difesa Robert Gates nel 2011 durante una ministeriale Nato disse che i contribuenti americani non comprendono perché debbano contribuire alla difesa europea e della Nato in modo così superiore a quanto fanno i loro partner“.
Pensieri ribaditi in modo differente dal presidente Barack Obama nella suo ultimo incontro a Roma con il premier Matteo Renzi e negli scorsi giorni dall’ambasciatore Usa in Italia, John Phillips.