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Siria, tra fatti e paranoie

Come se la confusione intorno e dentro al conflitto siriano non fosse già abbastanza, in questi giorni ci si è messo anche l’Egitto a sollevare un polverone – bizzarro quanto reale – sulle radici della guerra. Secondo la Tv satellitare al-Tahrir, infatti, l’Occidente avrebbe premeditato quanto accaduto in Siria. Ma al di là delle paranoie che accompagnano spesso il pensiero cospirativo egiziano – sarebbero molti, quelli che credono che le azioni degli Stati Uniti in politica estera, abbiano l’unico fine di dividere il mondo arabo -, quali sarebbero le prove per sostenere questa specie di complotto? Una puntata dei Simpson. Sì, i Simpson quelli gialli del cartone animato creato da Matt Groening.

Il buffo aneddoto lo racconta Foreign Policy: in una puntata del 2001, Bart e amici si sono uniti in una boy band. Nell’episodio si vede il video di una della canzoni della band, in cui i componenti del gruppo sono impegnati nel bombardare un gruppo di uomini arabi armati. L’arcano è nascosto in un dettaglio della scena secondo gli egiziani: sulla jeep alle spalle dei presunti mujaheddin è raffigurata una bandiera molto simile a quella adottata tredici anni più tardi dall’opposizione siriana. Circostanza che ha portato la giornalista che conduceva martedì il programma di approfondimento, a tirare la conclusione diretta: quella bandiera apparsa sulla puntata dei Simpson, non esisteva a quei tempi, ragion per cui, “la guerra civile siriana altro non è che una premeditazione” statunitense.

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Difficile credere a certe prove, secondo cui potremmo addirittura aspettarci bombardamenti americani contro le forze di opposizione regolari. I fatti raccontano altro, comunque. Di oggi è la notizia secondo cui gli Stati Uniti riconosceranno status diplomatico alla Syrian National Coalition (SNC), quella che potremmo definire l’opposizione ufficiale. Annuncio arrivato dopo la prima visita ufficiale in America (iniziata lunedì) della guida Ahmad Jarbe. Il riconoscimento degli uffici di rappresentanza di Washington e New York sotto il Foreign Missions Act, è accompagnato anche dalla decisione di stanziare altri 27 milioni di dollari di aiuti non letali (portando l’assistenza complessiva a 287m).

La scelta ha una sua importanza anche estetica, se si considera la decisione di carattere antipodico di qualche tempo fa: a metà marzo, infatti, gli Stati Uniti sospesero tutti i rapporti con le ambasciate del governo di Assad.

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Intanto mentre sul campo si segnala proprio in queste ore che i ribelli stanno lasciando Homs – città devastata, terzo polo del paese, dove i combattenti avevano siglato un accordo di ritirata già domenica -, emergono ulteriori prove sugli attacchi chimici dei giorni passati. A segnalarli è Daniele Raineri, giornalista del Foglio, che si trova a Kfar Zeita – una delle città colpite dalle barrel bomb al cloro sganciate dagli elicotteri governativi. Foto postate su Twitter da Raineri, riprendono contenitori metallici con indicata la scritta Cl2, il gas di cloro. Questi serbatoi saldati ai barili esplosivi, emetterebbero dopo la detonazione il gas, che, data l’alta reattività chimica, si mescolerebbe subito con l’umidità atmosferica – o con quella contenuta nei polmoni – formando composti cloridrici che causano problematiche respiratorie gravi. Dal governo le accuse cadono su al-Nusra, ma secondo diversi esperti la tattica di utilizzo – quella delle barrel bomb – è prerogativa governativa (anche perché i ribelli qaedisti non sono in possesso di mezzi aerei). Quel che peggio, è la segnalazione aggiuntiva di Raineri, che racconta di aver assistito ad un raid aereo proprio sulla città di Kfar Zeita. Il Mig dell’aviazione avrebbe colpito un luogo dove non era più segnalata la presenza di combattenti, solo per rappresaglia contro i civili.

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Ma oltre alla guerra combattuta ce n’è un altra che impegna diplomazie e sforzi di intelligence – e non si gioca sul campo. Si tratta del continuo flusso di militanti islamisti dall’estero: il capo dell’Fbi James Comey ha detto giorni fa che la situazione sta raggiungendo livelli estremamente critici. Si potrebbe ripetere quello che è successo in Afghanistan secondo Comey, quando negli anni ’80/’90 il conflitto interno al paese fu terreno fertile per la nascita e radicalizzazione di al-Qaeda.

Sarebbero una sessantina le diverse nazionalità dei muhajirin impegnati nella guerra: molti arrivano dai paesi arabi, tanti però dall’Occidente, a cominciare dagli Stati Uniti e da vari stati europei – giorni fa è stato ucciso il 27esimo combattente belga dall’inizio delle ostilità; mentre è stata segnalata la partenza di una quarantina di islamisti svizzeri. Uomini armati si muovono addirittura dall’Australia: lunedì è stata fermata all’aeroporto di Sydney una donna – con i suoi quattro figli – che si stava per imbarcare diretta in Siria: sul suo bagaglio soldi e diverse mimetiche, rifornimento per il marito combattente secondo la polizia aeroportuale australiana.

Resta fissato per questo mese un incontro tra Stati Uniti, Turchia, Marocco, Giordania, Tunisia e membri dell’UE per cercare di frenare il flusso di combattenti – ed organizzarsi su come evitare il pericoloso reflusso.


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