La Cina è sempre più protagonista degli equilibri economici e geopolitici del mondo. Dopo dieci anni di tentativi, la Russia ha ufficializzato ieri la vendita di gas a Pechino. Un accordo storico da 400 miliardi di dollari, che preoccupa l’Europa e gli Usa.
Timori che si sommano alle recenti accuse degli Stati Uniti alla Repubblica popolare di aver violato i sistemi informatici di cinque aziende americane e del sindacato dei lavoratori dell’acciaio per rubare segreti industriali.
Argomenti commentati in una conversazione con Formiche.net da Alberto Forchielli, socio fondatore di Mandarin Capital Partners, il più grande fondo di private equity sino-europeo, e Osservatorio Asia, centro di ricerche non-profit.
Forchielli, come commenta l’accordo tra Russia e Cina sulla fornitura di gas?
Niente di sensazionale, era un accordo largamente atteso da più di un decennio. I russi avrebbero preferito vendere a un prezzo europeo, cioè più alto di quello pattuito. I cinesi volevano un prezzo più basso, che hanno ottenuto. Forse la crisi ucraina ha accelerato le trattative, perché Putin era desideroso di dimostrarsi più forte dell’Occidente, ma l’accordo non cambia nulla sul piano degli equilibri geopolitici. La verità è che la sua era una scelta obbligata a prescindere. L’economia russa è ferma e il 70 percento delle esportazioni russe sono di petrolio e gas. I consumi in Europa sono in calo. La Cina invece cresce e ha sete di energia. Domanda e offerta si sono incontrate, ma a vincere sono stati i cinesi, che non solo pagheranno il gas a prezzi irrisori, ma entreranno sul mercato russo grazie agli investimenti sui gasdotti, che realizzeranno quasi interamente loro.
Forte di un mercato alternativo, la Russia potrebbe “ricattare” l’Europa?
Questo accordo non sottrae nulla all’Europa, perché è gas di nuovi campi che si trovano nella Siberia dell’Est. Queste risorse non sono ancora state sfruttate e la Russia inizierà a vendere la materia prima solo tra 10 anni, un tempo lunghissimo in cui potrebbe accadere di tutto. E poi, come detto, Mosca vive di esportazioni energetiche. Non avrebbe senso sostituire un mercato ad un altro. Per far che, per perdere soldi?
Un altro dossier caldo per Pechino riguarda le accuse di cyber-spionaggio da parte di Washington, un atto senza precedenti.
Credo che con questa mossa gli Stati Uniti manifestino la volontà di smettere di accogliere definitivamente investimenti cinesi nel loro Paese. Investimenti che non hanno mai voluto, in realtà, ma ora si sono stancati di qualsiasi forma di collaborazione con Pechino, che considerano una controparte arrogante e scorretta. Il sentimento anti-cinese è ai massimi storici sia nel Paese, sia nel Congresso, dove chiunque esprima una posizione di apertura viene apostrofato con il termine dispregiativo di “panda hugger”, letteralmente “abbracciatore di panda”. I cinesi invece continuano a provare un sentimento di amore e odio: vogliono studiare in Occidente – negli Usa in particolare – e comprare le nostre merci di qualità, per poi venderci le loro, il più delle volte scadenti e contraffatte.
Che rischio corrono gli Usa, dal momento che una parte consistente del loro debito pubblico è nelle mani della Cina?
Questi timori sono esagerati. Pechino possiede solo il 16 per cento del debito americano, che gli Stati Uniti non avrebbero nessuna difficoltà a ricollocare sul mercato. La vera paura, semmai, è per gli investimenti americani in Cina. La Repubblica popolare è un cliente importantissimo, ma le sole violazioni cinesi in campo tecnologico e della proprietà intellettuale – la vera forza americana – costano agli Usa circa 200 miliardi di dollari l’anno. Anche per questo gli Stati Uniti hanno detto no a una collaborazione sul tema della cybersecurity, sottolineando di essere in possesso di prove delle intrusioni cinesi. Come non bastasse, il rapporto commerciale con Pechino non è alla pari, perché chi investe in Cina si trova davanti un mercato completamente chiuso, in cui lo Stato decide tutto e può chiudere il tuo business dall’oggi al domani. Finora i rapporti tra Usa e Cina sono continuati per le pressioni delle grandi lobby: agricoltura, corporation, finanza. Ma ora anche loro si sono stancate di un interlocutore inaffidabile. Wall Street in Cina guadagna poco. E le relazioni tra i due Paesi sono destinate a peggiorare.
Cambierebbe qualcosa se la Cina intraprendesse la strada delle riforme?
Non credo accadrà. L’apertura al mercato è troppo lenta. Sono anni che se ne parla, vengono annunciate e poi si disperdono nel vuoto. La verità è che ormai nel Paese ci sono blocchi di potere consolidati, che non vogliono perdere la posizione di privilegio acquisita nel tempo. Prima le facciano, queste riforme, poi ne discuteremo.
Conviene ancora investire in Cina?
Sì, a patto di fare investimenti industriali circoscritti, destinati quasi esclusivamente al mercato interno, con pochi trasferimenti di tecnologia, in modo che le ingerenze del governo cinese si riducano al minimo.
Anche in Europa si discute del peso crescente della Cina, ma gli Stati sembrano non voler prendere nessuna iniziativa. Come mai?
In Europa il peso delle lobby conta meno. Alla base ci sono le divergenze di interessi tra i singoli Paesi. La Germania non vuole perdere l’avanzo commerciale che ha con Pechino, il Regno Unito vuole diventare il mercato offshore di trading per la moneta cinese, il renminbi, la Francia vende un po’ di tecnologia nucleare oltre la muraglia e l’Italia invece non vale niente.
Nemmeno un negoziato come il Tpp (una zona di libero scambio tra gli Usa e alcuni Paesi asiatici Cina esclusa), potrà incrinare lo strapotere di Pechino?
L’idea è giusta, ma non avrà successo. Barack Obama non riuscirà a trattare con i Paesi asiatici dopo che il Congresso americano si è rifiutato di delegarlo. Capitol Hill non crede in questo tipo di accordi, già falliti troppe volte in passato. E il Giappone e le altre nazioni del continente non faranno mosse avventate per un presidente che non ha potere negoziale. L’ultimo viaggio del capo di Stato americano in Asia la dice tutta su come il progetto si sia arenato. Per gli stessi motivi, seppur con la regia di Bruxelles, anche il Ttip – l’omologo trattato tra Usa ed Europa – fallirà.