Ha scritto Virgilio che “l’incidente è il tempo stesso che passa, un tempo sempre più veloce, sempre più incalzante: il tempo è l’incidente degli incidenti”. E in politica, come è noto, il tempo è strategico per scelte e rotte da seguire. Il centrodestra italiano ha imboccato l’ultimo curvone prima del finish e non sarà imitando adunate toscane o cercando un Tsipras alla destra di Renzi che si darà un competitor a quel Pd che si appresta a governare per un paio di lustri.
Per coloro che si riconoscono in un liberalconservatorismo 2.0, attento a rimodellare quella casa del Ppe in cerca di conferme, punto di partenza dovrebbe essere una concezione europeista di base: precisa, dai contorni definititi e senza sbavature localistiche. Immaginare un’Ue che vada dall’Atlantico agli Urali è stato il filo conduttore di un progetto pro Unione e anti separatismi che ha caratterizzato il percorso non socialista degli ultimi quarant’anni. Chi oggi sotto (o sopra) elezioni urla a squarciagola l’uscita del nostro Paese dall’Ue non solo non conosce il valore simbolico e legale dei trattati europei, ma fa mostra di ignorare un macro elemento assoluto: in un momento in cui il resto del pianeta allaccia alleanze strategiche, come quella russocinese, oltre al proliferare di veri e propri giganti economici come i paesi dell’area asiatica, che ruolo potrebbe giocare l’Italia in solitario?
Demagogia, quindi, rincorrere umori di piazza e proposte di pancia, ma altrettanto inutile sarebbe immaginare di lasciare lo status quo così come appare oggi. Alzare il dito e tentare di migliorare l’Europa, però, non significa essere antieuropeisti: tutt’altro. Ben più difficile restaurare il vecchio continente e quella burocrazia che si evidenzia nella doppia sede e in lacci e lacciuoli deleteri, piuttosto che buttare il bambino con l’acqua sporca, puntando sulla disperazione di elettori imbestialiti e provati dalla crisi: ecco un primo punto di partenza per i conservatori-repubblicani 2.0. Restare in Europa, provare a migliorarla dall’interno e anzi allargarne il raggio di azione ai Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, così come ad esempio ha fatto Vladimir Putin con l’alleanza euroasiatica pochi giorni fa. Una visione, quindi, che fino ad oggi non c’è stata.
In secondo luogo le lezioni del passato dovrebbero servire a chi rischia di commettere i medesimi errori. Il centrodestra in Italia ha goduto del suo massimo splendore politico (e quindi con ruoli di governo) quando è riuscito a rompere la monotonia dell’avversario, offrendo un quadro compatto e d’insieme, in virtù di un’alleanza programmatica e partitica. E puntando su uno slogan rivoluzionario. L’esatto contrario di ciò che si oggettivizza, per mille motivi, oggi.
Di contro il Pd renziano, non solo ha rottamato la classe dirigente del passato, ma è riuscito a ridare speranza al proprio elettorato e contagiando i delusi degli altri schieramenti: puntando forte sul senso di rinascita di un “partito della nazione”, su una lenzuolata di riforme, sulla consapevolezza che non esiste una terza via, per cui o si fa rinascere l’Italia o si affonda tutti. E al di là delle case di appartenenza dei singoli come dimostra il 40% ottenuto alle elezioni europee, secondo record della storia repubblicana italiana dopo il 42% ottenuto dalla Dc nel 1958.
Significa che sigle e casacche poco contano in un tessuto sociale allo sbando, con una nuova emigrazione che costringe i 40enni italiani a tentare la fortuna oltre oceano, con marchi italiani colonizzati da società straniere, con i cento miliardi spesi nell’ultimo lustro per la cassa integrazione con cui quantomeno si sarebbe potuto stimolare il mercato invece che pagare i cittadini per non far nulla. Per cui, più che una Leopolda o un Tsipras di centrodestra, sarà il caso che i conservatori-repubblicani italiani azzerino tutto: slogan, metodi di selezione, vecchi vizi del passato, parentele e affinità. E puntino su una rottura netta, su competenze vere e non presunte, su un nuovo europeismo e non su farfugliamenti dell’ultimo minuto, su un euro più giusto e non così forte sul dollaro, su quell’energia che chi ha fatto l’Italia nel dopoguerra ha messo in campo in proprio. E attendere che i semi, se buoni, diano i loro frutti.
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