Settantaquattro morti, in varie zone dell’Iraq, soltanto nella giornata di mercoledì: la peggiore degli ultimi sette mesi. Gli attentati si legano all”Isis e si inquadrano nel particolare contesto politico: i partiti stanno dialogando per mettere insieme una sorta di coalizione, per permettere la formazione del nuovo esecutivo, che il primo ministro (da poco rieletto) Nouri al-Maliki vorrebbe guidare, nonostante l’assenza di una maggioranza chiara.
L’Isis, lo Stato Islamico del Iraq e dello Sham, è in guerra da tempo, si sa. In un paese dove la deriva settaria delle divisioni interne, sminuisce gli eventi politici, portandoli ad assumere tutto meno che una dimensione nazionale – di sovranità nazionale, s’intende.
L’interconnessione delle vicende elettorali con quelle che riguardano più ampiamente l’intera regione, è forte: d’altronde, l’Iraq è un paese cruciale per il Medio Oriente. Non si può ignorare l’influenza delle potenze sciite, guidate dall’Iran, così come quella turca nel Kurdistan e quella saudita sui poteri sunniti. E non si può parlare di una politica irachena scevra dalle pressioni di Washington.
A quanto pare gli americani non sposerebbero più, a questo punto, il terzo mandato di al-Maliki, con il quale tuttavia stanno mantenendo i rapporti di cooperazione, anche militare, intrapresi all’abbandono del paese nel 2011. Anzi, a quanto pare c’è l’interessamento (reciproco?) a incrementare la collaborazione: Foreign Policy scriveva un paio di settimane fa, della possibilità che gli Stati Uniti fornissero all’Iraq una copertura aerea con droni, anche armati. L’obiettivo, ça va sans dire, sempre quello: combattere l’Isis.
Il nuovo mandato di Maliki, sembra invece essere sostenuto dall’Iran – sembra, però, perché a sentire quello che esce da certi circoli, l’idea di Teheran, sarebbe quella di mettere a capo del governo un uomo che riesca a mantenere maggiore distanza da Washington.
Con ogni probabilità, lo scontro politico tra le varie formazioni aggrappate alle proprie posizioni, andrà avanti ad oltranza, portato al limite, senza concessioni da nessuna delle parti, fin quando si creerà un ambiente perfetto per l’ingerenza straniera – momento in cui qualcuna delle forze politiche ne chiamerà l’intervento.
La realtà irachena è storicamente divisa in modo settario: dietro la lontananza tra sciiti e sunniti, c’è in primis la difficoltà di comunicazione tra le guide religiose. Dopo la caduta definitiva di Saddam nel 2003, ci sono stati vani tentativi per sistemare le cose tra le due parti – come, per esempio, le varie conferenze di riconciliazione o l’istituzione del Consiglio iracheno per il dialogo interreligioso. Il problema è che ognuna delle due sette, vede l’altra come pericolo per la propria sopravvivenza: i sunniti pensano che ci sia un progetto Farsi-sciita che mira a sradicare sunnismo e arabismo dall’Iraq, mentre gli sciiti temono un progetto sunnita-wahabita-saudita per opprimere la maggioranza sciita in Iraq.
Il settarismo era sembrato allontanarsi dal mondo politico, ma l’incertezza data dalla situazione attuale, potrebbe riportare la questione in primo piano. Con l’Isis che rappresenta uno stato nello stato, trovando così ulteriori spazi di radicazione e rafforzamento, nonostante la perpetrazione di barbarie: ultima denunciata, l’uso di disabili mentali come kamikaze. Lo Stato Islamico li preleva dalla strada, li addestra, li incita e poi gli mette uno zaino-bomba: l’ultimo si è fatto esplodere a meta aprile, si chiamava Hassan (conosciuto come “al-Mabruk”, il bendetto), aveva vent’anni. La sua bomba ha ucciso oltre a lui, quattro militari e un poliziotto.