Il voto della Camera sulla responsabilità civile dei magistrati, come sempre accade in questi casi, è il risultato di tante circostanze tra loro profondamente diverse da cui, alla fine, scaturisce un fatto di grande rilievo politico.
L’emendamento di Gianluca Pini (deputato romagnolo della Lega Nord che era stato protagonista della medesima iniziativa, con un esito positivo e con analoga spaccatura dei democratici nella passata legislatura) è stato approvato dall’Assemblea di Montecitorio per un pugno di voti e grazie a qualche decina di franchi tiratori nelle file del Pd, tra i quali, ‘’reo confesso’’, il vice presidente della Camera Roberto Giachetti.
Sui numeri del voto hanno pesato certamente le assenze (tra cui alcune parecchio vistose se considerate dal punto di vista della militanza giustizialista degli assenti); ma sarebbe bastata la compattezza dei presenti per bocciare l’emendamento. Il fatto è che, come hanno ammesso autorevoli esponenti democratici, il problema dei rapporti con la magistratura esiste. E nel Pd si sta facendo strada l’esigenza di chiudere l’era del ‘’collateralismo’’.
Qualcuno potrebbe pensare che il ‘’cambio di rotta’’ dei democratici costituisca il tentativo di liberarsi di uno scomodo alleato, una volta che esso è riuscito a privarli del ‘’nemico’’ Silvio Berlusconi e si è messo a spulciare le carte in casa del Pd. All’inizio degli anni ’90, ai tempi di Tangentopoli, l’ex Pci venne tenuto fuori apposta. Nei suoi confronti volarono solo gli stracci (Primo Greganti e qualche altro personaggio marginale ‘’pescato’’ tra i cosiddetti miglioristi o i cooperatori), mentre a Tiziana Parenti venne interdetta dal pool della Procura milanese la possibilità di applicare nei confronti del vertice di Botteghe Oscure il principio del ‘’non poteva non sapere’’ che incastrò Bettino Craxi, la vittima eccellente e predestinata di quella stagione.
Qualcosa comunque sta cambiando. Nella passata legislatura, dopo il colpo di mano di Gianluca Pini, il Pd si cosparse il capo di cenere e si prodigò in atti penitenziali verso gli ayatollah in toga. Ieri ha incassato il colpo con la rassegnata consapevolezza che così non si può più andare avanti. L’Italia sarà pure un Paese tra i più corrotti, ma è anche – lo dicono le fonti internazionali – quello della giustizia negata, dell’arbitrio ormai divenuta prassi.
Prendiamo la giustizia civile. Nei giorni scorsi, in occasione di un convegno, mi è capitato di ascoltare il racconto di una dirigente di una multinazionale delle telecomunicazioni operante nel nostro Paese. Una controversia giudiziaria, aperta presso diversi tribunali, è iniziata quando lei era incinta della sua bambina. Ora la piccola inizia la scuola e la controversia ha appena superato il primo grado con sentenze difformi a macchia di leopardo sul territorio nazionale.
Che cosa può pensare la sua società della giustizia del nostro Paese? Quanto, poi, alla giustizia penale, è accettabile un sistema che si basa sul ‘’grande fratello’’ delle intercettazioni (a cui è stato inibita una corretta regolamentazione a garanzia dei cittadini) e sull’asservimento della stampa e dei media alle Procure? E’ invalso ormai l’uso di mettere tutto assieme, di colpire il profilo etico delle persone anche quando quei comportamenti non hanno alcun rilievo penale.
In sostanza, i processi si fanno attraverso le conferenze stampa delle Procure e il volantinaggio delle intercettazioni sui quotidiani. Ben venga il giornalismo di inchiesta – purché non operi in un clima di diffamazione come accade spesso da noi – purché non si credano come Bernstein e Woodrow, gli eroi del Watergate, i nostri velinari delle Procure.
Non esiste più una distinzione, negli affari internazionali, tra commissioni e tangenti (nella vendita di armamenti le transazioni si sono sempre svolte in un’area grigia); le attività di lobbying – assolutamente legittime e regolamentate in altri Paesi – da noi sono sempre a rischio di incorrere nel reato di corruzione.
Insomma, l’Italia è ormai un Paese come l’Iran dove gli ayatollah (da noi le Procure) vigilano sulla politica e ne condizionano i protagonisti. Lì almeno esiste una gerarchia con un Custode supremo della Rivoluzione. Da noi sono in tanti (a centinaia) e ognuno agisce come vuole senza rispondere a nessuno. Ecco perché l’emendamento Pini, ancorché rozzo, è positivo e va nella giusta direzione.
Certo, deve essere corretto: non può esservi un rapporto risarcitorio diretto tra il giudice e il cittadino. La richiesta di risarcimento del danno subito ingiustamente dal cittadino va rivolta allo Stato; ma lo Stato deve essere obbligato a promuovere azione di rivalsa sul giudice ‘’fellone’’ (si può dire?) nel caso in cui siano accertate gravi mancanze (addirittura il dolo, la colpa grave o la violazione palese della legge) nell’azione del magistrato.
Avviene così in tutti i casi. Si pensi ai medici o ai chirurghi degli ospedali pubblici, che sono sottoposti all’azione di responsabilità e che sono indagati, su richiesta delle famiglie, ogni volta che muore un loro paziente. Si sentono forse impediti ad esercitare la loro professione? Da ultimo, se un normale cittadino si permette di criticare un magistrato questo è abilitato ad agire in sede civile e a chiedergli i danni (che gli vengono sempre riconosciuti per solidarietà di casta). Ma se avviene il contrario; se un magistrato, in conferenza stampa, rilascia dichiarazioni lesive dell’onorabilità di un cittadino, che successivamente risultano infondate; se quelle dichiarazioni servono a ‘’sbattere il mostro in prima pagina’’; se tutto ciò accade quotidianamente sotto i nostri occhi, alla fine chi paga il conto?
Una volta si diceva: ‘’Fiat justitia, pereat mundus’’. Era un principio ad effetti devastanti perché non esiste giustizia se essa deve comportare la fine del mondo. Oggi il latinetto funziona così: ‘’Fiat arrogantia iniustitiae, pereat mundus’’. Fino a quando?