Cresce la violenza in Irak, dove i jihadisti dell’Isis guadagnano terreno. La situazione è fuori controllo e nel nord e nel centro del Paese si continua a combattere. Il primo ministro Nuri al Maliki critica le richieste occidentali di aprire un dialogo e la timidezza degli Usa, accusando il potere sunnita in Arabia Saudita di sostenere i miliziani, spianando la strada a un genocidio.
In una conversazione con Formiche.net, il professore emerito di Storia delle relazioni internazionali all’Università degli Studi di Firenze, Ennio Di Nolfo, spiega ragioni ed evoluzioni di un conflitto politico e religioso più profondo di quel che appare e che in realtà divide in due il mondo islamico.
Professore, come valuta ciò che sta accadendo in Iraq?
Al di là della violenza e delle dinamiche interne al Paese, sono convinto che quanto avviene in Iraq sia riconducibile a un conflitto politico e religioso ancora più profondo che attraversa il mondo islamico e che oppone sunniti e sciiti. Una guerra di religione analoga a quella che ha diviso nel 1500 i protestanti dai cattolici. Quest’ultima è durata finché le due confessioni si sono rese conto che non conveniva combattersi apertamente per diversi motivi. Allo stesso modo credo che questa situazione possa durare a lungo, anche decenni, almeno finché le due fazioni non decideranno di raggiungere un accordo.
Quali sono i presupposti per un accordo e quale potrebbe essere?
Difficile definire le basi di un’intesa. Quel che è certo è che questa non potrebbe prescindere da un accordo tra le due grandi potenze della regione, le uniche due capaci di esercitare un dominio prevalente sul proprio mondo di riferimento, l’Iran sciita e l’Arabia Saudita sunnita.
In attesa che il dialogo si sviluppi, quale scenario è lecito attendersi nell’immediato futuro?
Potrebbe essere decisivo l’appello lanciato pochi giorni fa dal religioso sciita più rispettato del Paese, l’ayatollah Ali al-Sistani, di origini iraniane. L’autorità ha chiesto agli sciiti di imbracciare le armi e combattere i terroristi in difesa del loro Paese, arruolandosi come volontari e unendosi alle forze di sicurezza. Un elemento che dovrebbe sommarsi alla capacità del Primo ministro Nuri al-Maliki di mobilitare l’esercito, cosa che purtroppo non sta accadendo. Quella di queste ore è una fase transitoria, prima che sia chiaro il ruolo che Teheran vuole recitare in questo conflitto.
In questo gioco delle parti, chi sostiene – anche economicamente – i jihadisti dell’Isis, sempre più temuti da Aleppo a Baghdad?
Oltre ai ben noti proventi dei loro assalti a banche, depositi e convogli, i sauditi stannno svolgendo un ruolo quantomai attivo nell’ascesa dell’Isis. Anche tra gli stessi sauditi non c’è identità di vedute e mentre il governo non ha posizione netta su ciò che accade, altri da dietro le quinte appoggiano questa milizia sunnita, anche finanziandola sia sul teatro iracheno che in Siria in funzione anti Assad.
Diversi analisti fanno riferimento a una soluzione che potrebbe contemplare un Iraq diviso in tre parti tra sunniti, sciiti e kurdi. Quante probabilità ci sono?
Il fattore kurdo è fondamentale. Se è vero che l’Isis cerca davvero di creare un califfato islamico come quello ipotizzato da al-Qaeda, prima o poi saranno chiamati in causa. E sarà interessante capire quale sarà il ruolo della Turchia. Già ora Erdogan sarebbe tentato di intervenire, ma la delicata situazione interna non glielo consente.
Quale sarà il ruolo degli Stati Uniti in questo conflitto?
Gli Usa agiscono con prudenza, perché finora sono stati stretti alleati dei sauditi, per motivi strategici ed energetici. Tuttavia da quando hanno a disposizione shale gas e shale oil se ne stanno a poco a poco separando. Washington ha ragioni sostanziali per convergere, anche se non formalmente, verso un’intesa con l’Iran che cambierebbe radicalmente gli equilibri della regione. In ogni caso non ci sono ragioni per ritenere che gli Usa, soprattutto dopo il discorso di Obama a West Point, possano cambiare radicalmente il loro atteggiamento in politica estera. Ma molto dipenderà dall’evoluzione del conflitto e da come metterà in discussione l’equilibrio e le alleanze create nel tempo nella regione da Washington.
In queste ore si sprecano paragoni tra l’interventismo dei Bush e l’attendismo di Barack Obama. Come commenta le due strategie?
Rappresentano due aspetti differenti della politica estera americana, hard e soft power. Bush padre e figlio e in qualche misura anche Bill Clinton avevano prediligevano l’uso forza in situazioni di emergenza come quella attuale. Obama lo rinvia a casi ancora più estremi, cercando ad ogni modo di evitare interventi diretti. L’esempio più clamoroso di questa sua strategia non è né quello siriano, né quello iracheno, ma la Libia, dove gli Usa hanno preparato il terreno a Francia e Regno Unito, senza mai intervenire seriamente sul campo.