Il 25 giugno la Libia è tornata alle urne, per provare a porre fine democraticamente una volta per tutte al caos che impera nel Paese dalla caduta del regime di Muammar Gheddafi e che nel 2012 è costato la vita a Bengasi all’ambasciatore americano Christopher Stevens.
L’affluenza, come previsto, non è stata delle migliori – dei circa 3 milioni e mezzo di aventi diritto, appena 1 milione e mezzo di elettori si sono registrati, quasi la metà dei 2,7 milioni di libici che andarono a votare due anni fa – e nemmeno il clima in cui si è svolto il voto.
Durante le operazioni è stata ammazzata nella sua casa Salwa Bouguiguis, avvocato e nota attivista per i diritti umani. Un evento luttuoso che ha contribuito a riaccendere i riflettori su quanto accade nel Paese; l’instabilità di Tripoli consente ai flussi migratori provenienti da Nord Africa di scorrere indisturbati, aumentando così la possibilità che tra i richiedenti asilo si celino pericolosi terroristi o si alimenti il traffico di esseri umani, armi o altra merce illecitamente introdotta in Italia ed Europa.
Di questo sono ben consapevoli gli Usa, e in particolare il segretario aggiunto per gli Affari della sicurezza internazionale presso il ministero della Difesa Usa, Derek Chollet, ospite lo scorso 6 giugno della prima Airpress Conference tenuta a Roma.
Testimoniando davanti alla Commissione per gli Affari Esteri della Camera, l’alto funzionario ha ribadito la necessità di non disperdere gli sforzi diplomatici e militari su Tripoli, ricordando anche le problematiche che il caos libico porta ad alleati come la Penisola.
La strada maestra rimane quella del dialogo non solo tra le tante anime che compongono la Libia, ma anche tra le parti che si scontrano, come quella guidata dall’ex generale l’ex generale Khalifa Haftar, appoggiato dall’ala laica dei ribelli, e l’opposizione musulmana salita al potere con la caduta di Gheddafi.
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