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James Rodriguez, il magico cafetero. Il taccuino mundial di Gennaro Malgieri

L’eroe del Mondiale si chiama James David Rodriguez Rubio. La doppietta rifilata all’Uruguay lo consacra mito dei Cafeteros colombiani. La bellezza dei due gol resterà imperitura e perfino le gradinate del Maracanà non la dimenticheranno, come le prodezze di Pelé o le due reti di Schiaffino e di Ghiggia che sessantaquattro anni fa sprofondarono i carioca nell’inferno del futébol. Con “el Pibe”, come già lo chiamano in patria, la nazionale di Pekerman ha trovato dopo quasi vent’anni l’erede di Carlos Valderrama, il veterano con 111 presenze, che, per stessa ammissione di questi, è destinato più che ad emularlo a superarlo in fama, classe e agonismo.

A ventitré anni non si segnano cinque gol in quattro gare mondiali, come ha fatto Rodriguez incantando gli adoratori del calcio, se non si hanno qualità tali da surclassare squadre di grande tradizione e dotate di un livello tecnico indiscutibile. Cinque gol nel torneo brasiliano: esattamente quanti ne aveva segnati nelle precedenti ventidue presenze in nazionali, dall’esordio nel 2011 con la Bolivia all’amichevole giocata a Buenos Aires contro la Giordania il 6 giugno di quest’anno. Nel mezzo una carriera già ricca di traguardi, dal debutto con l’Envigado Futbol Club, al più blasonato Banfield argentino per approdare nell’inner circle dell’aristocrazia del calcio europeo giocando prima con il Porto per tre stagioni e poi approdando al Monaco per una cifra ragguardevole – settanta milioni di euro – in un’operazione che comprendeva anche il suo compagno nella squadra portoghese, Joao Moutinho. Nella squadra allenata da Lonardo Jardim segnato nove reti in 31 partite di campionato, che non sono poche per un trequartista, contribuendo soprattutto con assist efficacissimi al secondo posto in Ligue 1, dietro il Psg.

Poi l’exploit mondiale a conferma del buon lavoro fatto nell’Under 20 e nella nazionale maggiore per tre anni. Doveva essere “oscurato” dalla stella di Falcao, suo compagno di squadra nel Monaco, ma l’infortunio del fuoriclasse ne ha favorito l’ascesa. Quando si dice il destino…

La Colombia, che ha fatto vedere il miglior calcio in Brasile, deve a soprattutto a Rodriguez, dunque, perfettamente integrato in una compagine ricca di grandi talenti, la ripresa di quel calcio sudamericano elegante ed avvolgente, che il Brasile e l’Argentina, per non parlare dell’arcigno Uruguay, hanno dimenticato. I Cafeteros, per quanto velocissimi e predatori, hanno la tendenza ad accarezzare il pallone, a nasconderlo e a farlo apparire, soprattutto nel gioco d’area, ad esaltare l’agonismo della raffinatezza piuttosto che quello delle brutalità laddove la Celeste invece eccelle, con scarsi risultati come s’è visto. Il Cile è sulla buona strada, grazie soprattutto a un superbo Sanchez che oggi insieme con Neymar e Messi è davvero il terzo lato di un triangolo calcistico delle meraviglie al quale sono legate le fortune del Barcellona.

Ma il Neymar spagnolo, opportunamente assistito, non è lo stesso fuoriclasse che gioca nella Seleçao. E non è neppure lo “scudiero” di Messi, come sostiene ‘O Rey animato da un nazionalismo fuori posto. Una formazione, quella brasiliana, che esprime un gioco elementare, prevedibile, arruffone a tratti, lontana dagli incantamenti che suscitava nel passato. Il Cile l’ha surclassata, per quanto la sfortuna l’abbia condizionata e non solo alla lotteria dei rigori. Del resto, se “Dio è brasiliano”, come dicono i carioca, a Belo Horizonte ha volto il suo sguardo sui verde-oro salvandoli da una catastrofe che non sarebbe stata soltanto sportiva.

Quando il Brasile incontrerà la Colombia sarà tutta un’altra storia. I Cafeteros, si dice, non mancano di ancestrali protezioni. E la gente di Bogotà, di Medellin, di Cartagena, di Barranquilla fa festa: per la prima volta dal 1924 (il debutto della Seleccion avvenne comunque nel 1938 ai Giochi centroamericani e caraibici, alle 9.45 del mattino a Panama), da quando cioè esiste la federazione unica colombiana, vede più vicino il ritorno al Maracanà per l’ultimo atto. Con l’aiuto di Dio e di James Rodriguez per scrivere un’altra storia sudamericana. Una storia di pallone che s’intreccia con la vita. E non ha niente a che vedere con le vicende che ne hanno segnato gli ultimi decenni. Gli unici “cartelli” visibili appesi in tutti gli angoli di questa nazione colorata, sensuale e dolcissima sono adesso quelli che celebrano un nuovo “liberatore”, come se fosse un Simon Bolivar con la palla al piede.

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