La significativa vittoria del Partito Democratico nelle elezioni europee ha consolidato sensibilmente la leadership di Renzi, tanto come segretario politico, quanto come premier. Nel nostro sistema politico non sempre il Presidente del Consiglio ha rivestito, di fatto, una posizione particolarmente autorevole. La fragilità delle maggioranze parlamentari e le mediazioni azzardate e laboriose hanno posto sovente i capi dell’esecutivo pro tempore nella posizione di primi inter pares, rispetto ai propri principali ministri o agli stessi segretari di partito, depotenziandone il ruolo di direzione politica.
RENZI E IL PREMIERATO FORTE
La debolezza dei premier registratasi negli anni ha indotto a più riprese partiti e studiosi a includere il cosiddetto “premierato forte” tra le diverse innovazioni della sempre invocata riforma della seconda parte della Costituzione. Il giovane Presidente del Consiglio Matteo Renzi il premierato forte se lo è conquistato sul campo, prima con le primarie plebiscitarie che gli hanno consentito di prendere le redini di un partito complesso, articolato e poliedrico, poi con queste elezioni europee che possono considerarsi un’apertura di credito e una manifestazione di fiducia sulla parola di forte impatto politico.
Una larga fascia dell’elettorato, di quello che ancora vota e vuole dire la sua sulle prospettive del proprio paese, lo ha delegato a procedere senza indugi sulla strada delle riforme. Riforme che investono l’assetto istituzionale – bicameralismo e poteri regionali, in particolare -, la legge elettorale, la pubblica amministrazione, la razionalizzazione della spesa. Nello stesso tempo, si attendono da lui il rispetto degli impegni di rimodulazione dei rapporti con l’Unione Europea e rinegoziazione di vincoli che ostacolano la ripresa economica e gli investimenti produttivi.
IL CARRO DEL VINCITORE
Se, dunque, a febbraio, all’epoca del blitz che insediò il neosegretario del PD a Palazzo Chigi, la stabilità della maggioranza sembrava compromessa dallo scarso consenso dei gruppi parlamentari del partito di maggioranza relativa, ancora un po’ “bersaniani”, nei confronti del nuovo premier e dalla persistente eterogeneità dell’alleanza di governo, dopo le europee del 25 maggio il quadro appare molto diverso. La forza contrattuale del premier è sensibilmente cresciuta, la sua irresistibile ascesa sembra stagliarsi sul prossimo futuro e ora, un po’ per il consueto opportunismo della nostra classe politica, un po’ per il naturale bisogno di sperare in una prospettiva costruttiva, spezzoni di centro e di sinistra stanno correndo a mettersi al riparo sotto il suo ombrello. E anche il PD appare in larga misura allineato, con distinguo limitati a specifici obiettivi di riforma, o legati a esigenze di mera “visibilità” di corrente. Il carro del vincitore appare sempre irresistibile e quella di Renzi alle europee è stata una vittoria vera, oltre ogni previsione.
GLI ALLEATI
Gli stessi alleati del Nuovo Centrodestra, pur sempre decisivi al Senato, sembrano ancora più attenti a evitare eccessive distinzioni e dissociazioni, perché un rischio di crisi potrebbe suscitare nel premier la tentazione di provocare un ricorso alle urne, forte della perdurante luna di miele con l’elettorato. Mentre il partito di Alfano, sotto questo profilo, non sembra godere di ottima salute, dato il modesto risultato europeo, con il quorum raggiunto per un soffio, nonostante il supporto dell’Udc e dei Popolari di Mauro.
IL RAPPORTO CON FORZA ITALIA
E, nonostante le differenze di collocazione, la stessa considerazione vale per Berlusconi, il cui partito, elettoralmente, appare in caduta libera. Se dentro Forza Italia, schierata all’opposizione, ma tendenzialmente collaborativa e solidale con gli intenti riformatori di Renzi, prevalesse la linea dura che pure si fa sentire e il partito decidesse di tirare troppo la corda, rallentando il processo riformatore, l’ex sindaco fiorentino potrebbe essere ugualmente tentato a perseguire lo scioglimento anticipato che a Forza Italia difficilmente gioverebbe.
RISCHIO NUOVA GRANDE COALIZIONE
Ma il PD, anche ora che è ai “massimi storici”, a legislazione elettorale invariata (cioè se si votasse con il sistema che scaturisce dalla sentenza della Corte Costituzionale che ha mandato in soffitta il Porcellum) potrebbe uscire da eventuali elezioni anticipate senza una maggioranza assoluta in Parlamento e trovarsi quindi costretto ad alleanze ancora più eterogenee dell’attuale. In altre parole, non basterebbe più Alfano, assai ridimensionato dalle urne delle europee, ma sarebbe necessario il ritorno alla Grande Coalizione – quella con Berlusconi, per capirci -, che certo il PD non si augura di sperimentare
una seconda volta.
L’IPOTESI ALTERNATIVA
Sulla carta ci sarebbe anche un’ipotesi alternativa, l’intesa con 5 Stelle, ma difficilmente gli umori alternanti di Grillo nei confronti del premier garantirebbero stabilità, nonostante la predisposizione alla tessitura che sembra dimostrare il paziente e dialogante Di Maio, giovane promessa del movimento. Quindi per Renzi elezioni a breve, prima della riforma del bicameralismo e di quella della legge elettorale, non sembrano convenienti. Il PD bastante a se stesso per vincere e governare, già sognato da Veltroni nel 2007-2008, è di là da venire e passa per una legge elettorale maggioritaria e per una riforma del Senato che limiti alla sola Camera il conferimento della fiducia all’esecutivo. E la possibilità di portare a casa questo risultato, una grande riforma autenticamente innovativa da vararsi in questa XVII° legislatura, passa – piaccia o no – attraverso l’accordo con Berlusconi.