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Giavazzi, Tabellini e Zingales, tutte le giravolte degli economisti liberisti e bocconiani su euro, debito e spesa pubblica

Fino a pochi mesi fa gli economisti liberisti più prestigiosi del nostro Paese, in gran parte attivi nell’Università Bocconi di Milano, ritenevano intangibili i pilastri delle strategie finanziarie europee.

E guardavano al rigore di bilancio come alla cornice indiscutibile per promuovere un percorso virtuoso di riforme radicali in Italia. La cui crisi produttiva e sociale era a loro giudizio il frutto di stagioni di statalismo imperante, di incremento abnorme della spesa pubblica, di ricorso al debito come leva per il consenso politico.

L’austerità espansiva

Aggressione del passivo di bilancio nella sanità, scuola e pubblico impiego, riduzione permanente delle uscite statali e regionali, snellimento della macchina amministrativa, sfoltimento del ginepraio di partecipazioni pubbliche nell’economia soprattutto territoriale, liberalizzazione e privatizzazione dei comparti produttivi strategici, valorizzazione e vendita del patrimonio immobiliare.

Tutte queste misure avrebbero dovuto proiettarsi in uno scenario di rigorosi parametri comunitari: pareggio di bilancio, rapporto tra deficit e PIL al di sotto del 3 per cento, relazione fra disavanzo e debito complessivo al 60 per cento. Erano i cardini della cosiddetta “austerità espansiva” propugnata dagli studiosi dell’ateneo milanese e di Harvard Alberto Alesina e Silvia Ardagna.

Un’equazione sconfessata dai fatti

Fortemente criticata dal Premio Nobel per l’economia Paul Krugman, tale visione conobbe un’applicazione parziale nel nostro paese. Gli interventi strutturali di stampo liberale vennero costantemente rinviati, traditi, abbandonati dal ceto dirigente.

E quando la crisi finanziaria mondiale cominciò a mettere a nudo i tanti punti vulnerabili del “sistema Italia” l’unica parte realizzata con feroce determinazione fu il rispetto intransigente e ossessivo dei vincoli europei.

Ricetta che in una difficile congiuntura internazionale finì per provocare effetti recessivi devastanti. Con un pesante riverbero sugli stessi conti pubblici, vista l’impennata continua del passivo di bilancio e della spesa pubblica contestuali a un regime fiscale intollerabile.

Il rifiuto di politiche interventiste

Un quadro fallimentare che non ha capovolto l’orizzonte culturale degli economisti liberisti nostrani. Nessuno di loro giunge a prospettare il ricorso a un programma di investimenti pubblici come leva per alimentare la domanda interna e rimettere in moto consumi, produzione, lavoro come teorizzato da John Maynard Keynes.

La lezione americana

Tuttavia Alesina e Francesco Giavazzi, l’altro studioso di punta della scuola bocconiana, hanno cominciato a manifestare contestazioni puntuali alle strategie adottate dalla UE. Lo hanno fatto soprattutto attraverso due editoriali scritti sul Corriere della Sera.

Nel primo accusano l’Europa di aver dato troppo rilievo in questi anni ai deficit e ai debiti statali, trascurando la rilevanza del capitale delle banche per il tessuto produttivo.

La mancanza di credito che attanaglia l’economia del Vecchio Continente, spiegano i due docenti, si ripercuote negativamente sulle prospettive di crescita e sulla tenuta stessa dei conti pubblici: “Un errore evitato negli Stati Uniti, il cui governo federale ha prima obbligato gli istituti di credito a ricostituire il capitale perduto durante la crisi e soltanto dopo si è occupato della finanza pubblica”.

Sforare i parametri UE per realizzare le riforme

Ma è in un precedente intervento sul Corriere che i due economisti arrivano a sfidare l’intangibilità dei vincoli di bilancio comunitari.

Anziché rincorrere il rapporto comunitario defiti-PIL, osservano Giavazzi e Alesina, un governo che avesse il coraggio di promuovere la ripresa produttiva e rendere competitive le nostre imprese proporrebbe a Bruxelles una riduzione immediata della pressione fiscale di 50 miliardi. Strategia accompagnata da tagli corrispondenti ma graduali della spesa, e da riforme strutturali da attuare nell’arco di un triennio.

Come avvenuto anni fa in Francia e nella Germania guidata da Gerhard Schroeder, il disavanzo supererebbe per un paio d’anni il 3 per cento del PIL. Una flessibilità vitale e salutare, rimarcano gli accademici, che accrescerebbe la sorveglianza europea sull’effettiva realizzazione dei tagli dei sussidi improduttivi, delle liberalizzazioni e apertura del mercato del lavoro, del restringimento del ruolo dello Stato nell’economia.

La difesa oltranzista dell’euro

Molto più clamorosa è la maturazione di una consapevolezza critica nei confronti dell’architettura monetaria europea.

Per gli studiosi liberisti il percorso di creazione della valuta unica avrebbe costituito l’opportunità storica per modernizzare l’assetto istituzionale, amministrativo, economico dell’Italia. La presenza cogente di vincoli esterni avrebbe favorito un percorso virtuoso di trasformazione dinamica del nostro tessuto produttivo.

Nessuno temeva le conseguenze della progressiva perdita di sovranità monetaria e all’ancoraggio a un cambio fisso che avrebbe reso impossibile ogni svalutazione competitiva nazionale. E poche voci si erano levate contro il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia che in assenza di un compratore di ultima istanza contribuì ad aumentare gli interessi da pagare sul nostro debito.

Svalutare l’euro

Lungi dal condividere le riflessioni e proposte di smantellamento concertato dell’Euro-zona messe in campo da studiosi come Alberto Bagnai, Jaques Sapir, Brigitte Granville, Claudio Borghi, Antonio Rinaldi, gli economisti liberisti vedono con favore nelle scelte compiute dalla BCE di Mario Draghi spazi di manovra per svalutare la moneta unica.

Per un’Europa democratica e liberale

Alcuni di loro si spingono oltre. Nel suo ultimo libro intitolato “Europa o no. Sogno da realizzare o incubo da cui uscire”, Luigi Zingales biasima la mancanza nel nostro paese di un ragionamento serio sui costi e i benefici dell’adesione alla valuta comune.

E “all’idea prevalente di una UE centralistica e totalizzante” contrappone “una comunità di nazioni indipendenti fondata su un euro diverso. O meglio, su un euro del Nord e uno del Sud”.

Un’ipotesi estrema

Uno scenario più sorprendente viene prefigurato da Guido Tabellini, già rettore dell’Università Bocconi e fautore della possibilità di ricondurre al 60 per cento il rapporto tra debito pubblico e Prodotto interno lordo nei tempi fissati dal Fiscal Compact.

Considerando che nel 2013 l’Italia ha speso 82 miliardi di euro per interessi sul passivo di bilancio – una montagna di oltre 2.100 miliardi pari a quasi il 135 per cento del PIL – lo studioso privilegerebbe la fuoriuscita dall’euro rispetto a una ristrutturazione penalizzante per i cittadini detentori dei titoli di Stato.

A meno che, precisa, la crescita economica del nostro paese registri ritmi superiori a quelli anemici previsti per i prossimi anni.


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