Il New York Times riporta che Martin Dempsey (Chairman of the Joint Chiefs of Staff, massimo ruolo nelle Forze Armate americane) non ha escluso la possibilità di estendere i raid contro lo Stato Islamico al territorio siriano.
Obama sembra fare sul serio (come non potrebbe, ormai?), e non si lascia intimidire dalle minacce che accompagnavano l’esecuzione del giornalista James Foley: o stop agli attacchi aerei o uccideremo anche Steven Sotloff (un altro giornalista americano che ha lavorato per Time e Foreign Policy rapito nel 2013) dicevano le parole del video. Gli Stati Uniti non trattano con i terroristi, e infatti negli ultimi due giorni – dopo l’assassinio di Foley – è stata effettuata un’altra ventina di airstrike, portando a 90 il numero totale dall’inizio dell’8 agosto (dato confermato da CENTCOM).
L’opzione di intervento in Siria complica ulteriormente la missione americana, che tuttavia, secondo le dichiarazioni di giovedì del Segretario alla Difesa Chuck Hagel, è «una pianificazione di lungo termine».
Ampliare i bombardamenti è comunque possibile, salvo poi ritrovarsi a combattere sullo stesso lato della barricata di Assad, con il rischio che la propaganda del regime siriano faccia passare tutto come un aiuto e una legittimazione alle proprie azioni. È un rischio, ma non è il principale: d’altronde in questa fase di conflitto, gli Stati Uniti, si sono trovati a combattere fianco a fianco con gli iraniani e con i curdi del Pkk – non proprio due realtà “amiche” dell’Occidente.
Il rischio maggiore, resta che continuare – o allargare – con i bombardamenti, sia un deterrente limitato e porti a un risultato relativo. Certamente nella riconquista della diga di Mosul la copertura aerea americano ha avuto un ruolo chiave – con il buon gioca fatto a terra dalle unità speciali irachene e dai peshmerga, uniti anche loro in un’insolita alleanza. Tutto dipende però dal progetto politico futuro: si vuole limitare l’espansione dello Stato Islamico, o lo si vuole disintegrare completamente?
Come ovvio, ognuna delle opzioni comporta pro e contro anche di notevole importanza, e conseguentemente si porta dietro diverse strategie.
Continuando soltanto con i bombardamenti aerei, si limiterà l’azione di conquista dello Stato Islamico, ma poco si potrà fare sui territori già in controllo. Attualmente il Califfato sta procedendo in una campagna militare espansiva – una “guerra di conquista” – che comporta lo spostamento di mezzi verso aree non controllate e scoperte. I primi di agosto, questa attività che si era leggermente rallentate per favorire la consolidazione all’interno del territorio già in possesso, ha avuto nuova energia. La BBC ha fatto una mappa per spiegare quello che è successo in quei giorni, che hanno poi portato al precipitare degli eventi e al punto in cui ci troviamo: dalle terre conquistate attorno a Mosul, le forze del Califfo si sono dirette massicciamente verso nord, attaccando sia Zumar che Qaraqosh – in direzione del Kurdistan – sia le ormai note aree del Sinjar, al confine con la Siria, scenario delle persecuzione contro gli yazidi.
L’offensiva è stata sicuramente bloccata dai raid aerei americani, che hanno messo fuori uso diverse postazioni di artiglieria e molti mezzi – e pure molti soldati – dell’IS. Ma questo, comunque, non ha fatto collassare lo Stato Islamico, che continua ad esercitare la propria statehood all’interno dei territori conquistati in precedenza.
Qui il limite dei bombardamenti: si potranno impedire altre conquiste, ma non si potrà mai sottrarre il territorio già preso, con attacchi solo dall’alto. Circostanza che comporterebbe la limitazione dell’espansione territoriale – almeno per il momento – ma che sull’altra faccia della medaglia vederebbe il Dawlah restare nelle “proprie” terre. Insomma, la comunità internazionale, dovrebbe accettare di convivere con uno Stato Islamico legittimato all’interno del proprio territorio. Fermo restando l’impulso imperialista del Califfato, che verrebbe sedato dalle bombe nell’immediato, ma non è detto che più avanti non possa rinvigorirsi – a quel punto, si ripartirebbe con i bombardamenti?
Altra opzione è quella di coadiuvare i raid aerei all’appoggio a terra di gruppi combattenti alleati – senza insomma impegnarsi a mettere soldati americani, o inglesi, o francesi, o italiani, nel conflitto. È un po’ quello che sta avvenendo al nord dell’Iraq, con i peshmerga curdi rinforzati dalle forniture di armi occidentali, che stanno combattendo l’attuale offensiva dell’IS. E formalmente, la copertura aerea viene fornita a loro, non all’esercito iracheno, anche se di fatto le forze del Battaglione Dorato, come detto, sono state coinvolte nelle battaglia alla Mosul Dam.
È un’opzione possibile questa, per quanto rischiosa e resa difficile dal contesto. I territori controllati dallo Stato Islamico, non si limitano infatti a quelli intorno al Kurdistan iracheno, ma si allungano molto a sud e poi in Siria. Con chi allearsi in quelle aree? In Siria si combatte una guerra civile da tre anni, una guerra senza discernimento, dove escluso per i poveri civili, non esiste più distinzione tra buoni e cattivi: da un lato il regime repressivo di Bashar Assad, dall’altro i ribelli, di cui pochi sono rimasti “moderati”, mente gli altri sono tutti persi nella deriva del radicalismo islamico – in primis l’IS (che in Siria è una delle componenti dei ribelli), o la qaedista al-Nusra. È sempre stato difficile scegliere chi sostenere contro Assad, figuriamoci fidarsi di mettere qualcuno “al proprio fianco” in battaglia; adesso poi.
Nel resto dell’Iraq, poi, trovare milizie alleate è altrettanto complesso. Servirebbe avere dalla propria parte i sunniti che vivono nelle grandi città del Califfato, come Mosul o Falluja, ma questo è stato reso molto complicato dal contesto sociologico che il paese ha vissuto negli anni di governo-Maliki, con il settarismo che ha ridotto i sunniti a popolazione inferiore. Ora la rivoluzione dell’IS, sunnita, sembra quasi un atto possibile. E d’altronde, senza l’appoggio delle tribù locali, gli uomini di Baghdadi avrebbero difficilmente preso il controllo di una fetta così grande di Iraq. Tra molte persone della provincia di Anbar, da dove l’ex Isis ha preso energia e dimensione, la presenza del Califfato non è poi così mal vista – in quelle zone nella guerra del 2003, i militari americani riportarono il maggior numero di morti, a seguito delle reazioni agli invasori della popolazione.
Invadere, appunto. Un’altra delle possibili opzioni. Inviare i soldati di un contingente internazionale (sotto egida Onu?) contro lo Stato Islamico, sarebbe quello necessario se il progetto politico è distruggere subito il Califfato. Soltanto combattendo una specie di “guerra di guerriglia”, si potrebbe eliminare del tutto la presenza del Califfo nei suoi territori, adesso.
Il Califfato è uno stato: detto questo una nuova invasione non sarebbe poi troppo diversa da quella del 2003 contro Saddam. Davanti, secondo gli ultimi dati del Pentagono, ci si troverebbe 17 mila soldati dell’IS solo in Iraq, e al massimo del proprio potenziale: va da sé che le perdite sarebbero enormi. E in Siria? Il problema resta sempre lo stesso: c’è la guerra civile, e né Assad né la frammentazione e il carattere dei ribelli sembrano dare spazio alla possibile presenza di forze-straniere-anti-IS.
La matassa è intricatissima. Non sembrano esserci soluzioni momentanee. Probabilmente procedere con i bombardamenti è l’opzione più pulita, nel senso che comporta il minor numero di perdite – anche civili. Poi si dovrà far leva su quella che attualmente è la forza dello Stato Islamico: l’essere, appunto, uno Stato.
Gli Stati si combattono con le guerre, ma anche facendo pressione sulle varie debolezza della statehood. Prima o poi, i soldi finiranno, per esempio: portare avanti una guerra è oneroso, e l’economia dell’IS si basa sullo sfruttamento di traffici illeciti di petrolio, sui riscatti dei rapimenti, sui saccheggi e sulle tasse estorte alla popolazione. Tutto è sensibilmente attaccabile, a cominciare dalle raffinerie petrolifere. Poi i riscatti dei rapimenti, che nel momento in cui dovessero non venire più pagati porterebbero ulteriori limitazioni all’entrate (e frenerebbero la pratica) – in cambio di Foley, secondo informazioni passata dalla famiglia al NyTimes sarebbero stati chiesti 100 milioni di dollari. Limitandone l’espansione, inoltre, potrebbero bloccarsi nuovi saccheggi. E non va sottovalutata la popolazione. Se per il momento c’è stato quasi “compiacimento” per le conquiste, l’applicazione ultra radicale della sharia, potrebbe piano piano rappresentare il presupposto per la creazioni di centri di sovversione – soprattutto in paesi abituati alla laicità baathista come la Siria e storicamente l’Iraq.
Non sarà facile fermare il Califfo, sarà un processo lungo e impegnativo, serviranno uomini e intelligence. Altrimenti un’altra delle opzioni possibili, è quella pratica fino all’8 agosto: non fare niente. Lasciare che le brutalità dell’IS producano autonomamente le rivolte contro il Califfo e aspettare. Il rischio è che intano lo Stato Islamico continui ad avanzare e ingrandirsi. Fino a che punto, adesso, non si può sapere.